Braccio di ferro per la conquista del petrolio

Il 9 luglio sarà ufficializzata l’indipendenza del nuovo Stato africano. Intanto le truppe nordiste del governo di Khartum (Sudan) hanno occupato Abyei e i suoi giacimenti petroliferi
Guerriglia in Sud Sudan

Il conto alla rovescia è cominciato. Ormai, alla proclamazione d’indipendenza dello Sud Sudan manca solo un mese. La data storica che segnerà la nascita ufficiale del 54simo Stato africano è il 9 luglio 2011, ma i problemi della vigilia non sono ancora risolti: manca un governo reale, non ci sono infrastrutture, le immigrazioni dal Sudan sono state troppo numerose e, non ultimo, il governo di Khartum ha invaso con il suo esercito la città di Abyei, un piccolo, ma strategico territorio ricco di petrolio posto a metà tra i due Stati sudanesi. Una mossa strategica, per impedire che il Sud Sudan lo annetta al proprio territorio. Ma anche un atto illegittimo e pericoloso, che potrebbe provocare nuovi conflitti, in una terra che solo da poco sta conoscendo una sorta di pace.

 

Che Abyei fosse destinata a divenire un elemento di contrasto, è stato chiaro fin dall’inizio. Tanto che, il previsto referendum che avrebbe dovuto consentire alla popolazione di scegliere a quale dei due stati sudanesi unirsi, che si sarebbe dovuto svolgere in concomitanza con quello che ha decretato l’indipendenza del Sud Sudan, è stato invece rinviato a data da destinarsi. Ma cosa sta accadendo in questa terra martoriata del Corno d’Africa? Ne parliamo con Giulio Albanese, giornalista e missionario comboniano, fondatore dell’agenzia di stampa internazionale Misna e attuale direttore della rivista Popoli e missione. «Mi auguro – afferma – che, in un modo o nell’altro, nel Sud Sudan cominci e si consolidi un processo di democratizzazione, che avrebbe un impatto positivo su tutto il Corno d’Africa. Non dimentichiamo che questo Stato rappresenta la linea di faglia tra gli interessi cinesi e quelli occidentali».

 

Albanese, con l’occupazione militare di Abyei si paventa una nuova guerra?

«La contesa per la contea di Abyei, francamente, non ci voleva. Il presidente del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit, comunque, ha assicurato che non ci saranno azioni belliche. Dunque, non credo che si rischi una nuova guerra tra Nord e Sud, anche perché in caso di conflitto le attività estrattive del petrolio si bloccherebbero e di certo non è ciò che vogliono le multinazionali…».

 

Ancora una volta, il petrolio è al centro del contendere…

«Di petrolio, ad Abyei, ce n’è tanto, perciò questa contea è fortemente contesa, tanto che si è arrivati all’occupazione militare delle truppe nordiste. In realtà, dietro le quinte, ci sono gli interessi della Cina, legata al Sudan, e degli Stati Uniti, vicini al Sud Sudan. Ecco, il futuro del nuovo Stato è legato alle decisioni che saranno adottate da queste due potenze internazionali».

 

Intanto, il 9 luglio si avvicina rapidamente. Com’è la situazione nel Sud Sudan?

«Tutto è ancora da inventare. Spesso sento parlare della mancanza di infrastrutture come problema principale del Paese. Secondo me, invece, serve una vera classe politica e l’avvio di un dibattito democratico all’interno del nuovo Stato. Poi, ci sono i tanti nodi irrisolti, a partire dal petrolio, che è una grande risorsa, ma rischia di tradursi in un elemento fortemente destabilizzante. Ci sono le difficoltà di convivenza delle diverse etnie, che politicamente potrebbe portare alla nascita di partiti su base etnica. Inoltre, c’è il problema dell’acqua, il cosiddetto oro blu. I precedenti trattati relativi all’utilizzo delle acque del Nilo, che tanti problemi hanno già creato con i paesi a monte, dalla Tanzania al Burundi, dall’Etiopia al Ruanda, privilegiano in particolare l’Egitto e il governo di Khartum. Adesso dovrebbero essere rivisti, anche perché i Paesi più svantaggiati sono quelli dai quali, in realtà, le acque del fiume sgorgano. L’anno scorso c’è già stata un vertice, in Uganda, disertato, però, proprio da Egitto e Sudan, che vogliono continuare a fare la parte del leone. Con la nascita del nuovo Stato del Sud Sudan, una nuova voce si aggiungerà a quelle che chiedono nuovi accordi. 

 

Cosa prevede, per il futuro?

«Purtroppo, le sorti di queste nazioni non vengono decise dai cittadini, ma da coloro che hanno interessi economici in queste aree. Alla fine, secondo me, prevarrà ciò che risulterà più conveniente per le grandi multinazionali. Le quali, non lo dimentichiamo, preferiscono un’autocrazia ad un regime democratico. Con la prima c’è maggiore stabilità, basta vedere lo scenario libico (prima del conflitto) o nord sudanese. Un regime democratico, invece, grazie all’avvicendamento delle forze politiche, non darebbe le stesse garanzie. Ecco perché mi auguro che, anche se lentamente, cominci un dibattito democratico nel nuovo Stato, che sarà un punto di arrivo e non di partenza, ma che è ugualmente fondamentale. Le grandi potenze economiche devono vigilare e fare attenzione: un nuovo conflitto non gioverebbe, anzi acuirebbe la sofferenza di queste popolazioni che non hanno mai conosciuto la pace».

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