Da Bozzolo al Sulcis: I destini del mondo si decidono in periferia
Barbiana e Bozzolo, i due luoghi che Francesco ha voluto toccare nella mattina di un caldissimo 20 giugno del 2017, sono le sorgenti di una fonte che ha dissetato molte persone nel corso della nostra storia recente. Un fiume sotterraneo destinato a manifestarsi nelle scelte decisive di tante storie personali. Sono luoghi di inquietudine e solitudine che mal si conciliano con la retorica postuma così come le polemiche tra dotti ecclesiastici che pochi comprendono.
«Cosa siete andati a cercare nel deserto?». Un profeta resta scomodo. Abita in luoghi lontani da ogni effimero potere, estranei ad ogni “centro” ma «i destini del mondo si maturano in periferia», secondo la citazione di don Primo scelta da Francesco.
Se non vogliamo fermarci alla celebrazione e al ricordo, bisogna leggere le periferie del nostro tempo segnato da quella pulsione alla guerra che i due preti, vissuti nel mezzo del secolo breve, hanno affrontato alimentando la fragile forza della coscienza.
L’esegesi di quelle vite controcorrente non può che partire dall’esistenza delle persone che oggi cercano di resistere alla banalità del male.
Coloro che accolgono gli esclusi della Terra in fuga da miseria e terrore. E quelli che non si sentono a posto se dal loro Paese partono armi destinate a creare morte e distruzione.
Francesco a Bozzolo ha indicato tre strade che possiamo percorrere in direzione antievangelica. Quando, cioè, ci rinchiudiamo nell’attivismo elitario e solitario delle sigle cattoliche (attivismo separatista) o ci rifugiamo nello spiritualismo che ci estrania dal mondo (soprannaturalismo disumanizzante) o, infine, restiamo alla finestra a guardare senza sporcarsi le mani accontentandoci di criticare senza una capacità propositiva, un approccio costruttivo alla soluzione dei problemi (lasciar fare).
Come abbiamo cercato di argomentare su Città Nuova, il Sulcis Iglesiente è oggi una delle periferie dove si decide il destino del mondo. È in questo luogo di antiche miniere che una fabbrica dal 2001 produce bombe da aereo, che ora arrivano anche alla coalizione saudita impegnata nella guerra nello Yemen. Uno dei tanti conflitti dimenticati ma che, secondo i dati di Amnesty International, ha provocato da marzo 2015 la morte di 4.667 civili. Altri 8.180 sono rimasti feriti, 2 milioni di persone sono attualmente sfollate internamente dai combattimenti, 2 milioni di bambini non possono andare a scuola, 18,8 milioni di persone – tra cui 9,6 milioni di bambini – necessitano di assistenza umanitaria – cibo, acqua, rifugio, carburante e servizi sanitari. 1.476 bambini sono stati poi reclutati come soldati, senza dimenticare l’epidemia di colera ormai in atto.
Si poteva lasciar fare, restare indifferenti e rifugiarsi in qualche pratica consolatoria e alienante; e invece semplicemente degli esseri umani, cattolici come credenti in tanti modi, hanno costituito un comitato eterogeneo che chiede la riconversione economica di quel territorio per non sottostare al ricatto tra il lavoro e la propria coscienza e dignità.
Il 21 giugno, giorno successivo al pellegrinaggio papale, associazioni e movimenti di diversa estrazione si ritrovano, assieme al comitato sardo per la riconversione, per chiedere, con una conferenza stampa, un atto coerente al Parlamento italiano: perché ponga fine al trasferimento di bombe destinate alla guerra yemenita, e applichi la legge 185/90 che vieta tali traffici e prevede l’alimentazione di un fondo per la riconversione al civile della produzione bellica.
Sul piatto della bilancia queste azioni sembrano non avere grande peso, se solo le si raffronta con il mercato mondiale degli strumenti di morte o il recente tour del presidente Usa – che ha continuato la pratica dei suo predecessori di vendere armi per miliardi di dollari alla monarchia saudita. Ricercatori, studiosi, politici e attivisti di ogni genere non pesano più di quanto contassero i montanari del Mugello e i contadini della bassa padana.
La tentazione di rassegarsi alla sconfitta è incombente, ma per muoversi concretamente oltre l’indignazione bisogna attingere a quelle fonti che Francesco ha voluto mostrare.
In uno scritto poetico Mazzolari coglie una dimensione comune dell’impegno staccato da ogni aspettativa di vittoria: «Ci impegniamo senza giudicare chi non s’impegna, senza accusare chi non s’impegna, senza condannare chi non s’impegna, senza disimpegnarci perché altri non s’impegna. Ci impegniamo perché non potremmo non impegnarci. C’è qualcuno o qualche cosa in noi, un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia, più forte di noi stessi».
Don Primo affermava il dovere della rivolta e definiva l’obbedienza indiscriminata come pagana. Parole scomode se diventano vita.