Botero, un anno dopo

Roma propone una grande rassegna di 120 opere dell’artista colombiano ad un anno dalla scomparsa. Un inno extralarge alla vita  
Fernando BOTERO foto ARTHEMISIA PRESS

Acquarelli, sculture, disegni, tele grandi e piccole. Fernando Botero rivive nella mostra romana con una quantità enorme di opere, alcune per la prima volta esposte in Italia come l’Omaggio al Mantegna della mantovana Camera degli sposi e La Menina ispirata a Velàzquez insieme al ciclo della Passione di Cristo.

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È un mondo, quello del pittore colombiano, scomparso a Montecarlo, grande conoscitore dell’arte europea, innamorato della sua terra e delle sue origini, attento anche ai problemi sociale del suo continente. Un mondo esagerato e volutamente. Donnone e omenoni giganteschi, sformati, ma pieni di salute e soprattutto di colore.

Il colore, esplosivo, acuto è la parola di Botero. Un colore forte che ama tinte accesissime a dire una vitalità inesausta dell’autore, il suo amore per la vita in ogni sua espressione, la vulcanicità del suo messaggio.

Il colore parla grida gioisce soffre e contempla. Se si guardano gli immensi vasi di fiori dai colori fortissimi si resta estasiati e al contempo sazi. Certo, i vasi di fiori di Botero non sono come quelli di Cézanne o di Renoir o di Morandi e de Pisis. Sono teatralmente aggressivi, rutilanti, spropositati: gridano vita in ogni immenso petalo a differenza della poesia sobria e misurata, anch’essa però vera, dei maestri citati.

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Se si guardano le opere religiose del colombiano si passa dal Crocifisso espanso del 2000, espressione di un dolore che non ha confine, all’umorismo del Bagno in Vaticano del 2006 con un vescovo in rosso, vestito da messa, dentro ad una vasca d’acqua: ironia o dissacrazione o voglia di scherzare?

Un mondo a parte è quello delle donne. Possono essere Ballerine alla sbarra, biancovestite dalle forme ridondanti che nessuna danzatrice mai vorrebbe avere, ma a Botero non importa: tutti devono poter danzare, anche i brutti e i grassi…Oppure, se si osserva la Donna allo specchio, una Venere tizianesca extralarge, si ha l’impressione di una venere casalinga, popolaresca e simpatica come quella sdraiata  col marito in un picnic o che balla con  l‘uomo.

Naturalmente, Botero riprende i maestri del passato, li cita a suo modo, ed ecco la Duchessa d’Alba, da Goya, del 1998, La Menina da Velàzquez, in biondo e azzurro,  o il Dittico d’Urbino di Piero della Francesca e la Fornarina da Raffaello. Citazioni che sono reinterpretazioni. Ma il suo non è solo il mondo del circo, delle ballerine, delle corride, del paese natio. C’è anche  il fronte politico e sociale. Chi osserva la tela del 2011 Il Presidente e il suo gabinetto, tra donne uomini  e un prelato,  non può non avvertire il sarcasmo con cui le figure massicce sono colorate,  per non parlare dei dipinti sulle torture in carcere.

Tutto della vita interessa a Botero.  La vittoria anche nel dolore infatti è della gioia di vivere ed essere al mondo. Pur essendo il suo stile ripetitivo, eccessivo e talora forse compiaciuto,  la sua arte genera un ponte tra un continente e l’Occidente, ne tenta un dialogo e trasmette un amore colorato per l’umanità, qualunque essa sia, che è forse la sua cifra più bella.

Fernando Botero. Roma, Palazzo Bonaparte. Fino al 19.1

 

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