Borghesi: opporsi alla guerra da Benedetto a Francesco
Nel suo viaggio in corso nella Repubblica Democratica del Congo, Francesco, di fatto, sta scrivendo, dentro la ricca complessità del continente africano, una nuova enciclica sociale. Fin dalla sua elezione il papa che arriva “quasi dalla fine del mondo” è stato un segno profetico che ha attirato inevitabilmente anche forti critiche e incomprensioni. Le opere del filosofo Massimo Borghesi, docente presso l’università di Perugia, sono state in questi anni primi 10 anni di pontificato uno strumento decisivo per andare in profondità nella conoscenza di Francesco. Il libro di Borghesi del 2017 dedicato alla biografia intellettuale di Bergoglio è un testo di riferimento che è stato tradotto in molte lingue. Fondamentali sono i suoi precedenti testi su modernità e ateismo, il pensiero di Romano Guardini e la critica della teologia politica, per citarne solo alcuni. Una vera e propria summa il libro del 2021 su Francesco. la Chiesa tra ideologia teocon e “ospedale da campo”.
In questa intervista rilasciata a metà gennaio cerchiamo di fare il punto a partire dal legame tra Francesco e Benedetto XVI che ha terminato i suoi giorni terreni l’ultimo giorno del 2022.
Come ha scritto più volte, a suo parere, il rifiuto della teologia politica esprime la profonda continuità tra i due papi. Come si può comprendere in termini accessibili a tutti?
Dall’11 settembre 2001 assistiamo ad un reiterato abuso della religione utilizzata per legittimare situazioni di guerra tra i popoli e gli Stati, tra Occidente e Islam. Oggi tra l’Ortodossia russa e quella ucraina. Nel mondo postsecolare i conflitti assumono un volto politico-religioso. Tanto Benedetto, con il suo discorso di Ratisbona, quanto Francesco si sono rivelati intransigenti critici del connubio fatale tra religione e guerra. A fronte del processo di secolarizzazione, promosso in modo totalmente acritico da una sinistra liberal dimentica del sociale, avanza una reazione conservatrice che usa strumentalmente della religione per fini di potere. Tanto Benedetto quanto Francesco hanno chiamato, e oggi Francesco chiama, i cristiani alla loro responsabilità storica distinguendo tra la fede e le sue declinazioni contingenti.
Come si può leggere il legame tra i due papi sulla questione della pace e della guerra? Ratzinger ha scelto il nome in continuità con Benedetto XV mentre Francesco ha parlato per primo, tra l’incredulità generale, di una terza guerra mondiale a pezzi…
Si, Benedetto aveva scelto il suo nome pensando, oltre che a san Benedetto patrono d’Europa, anche a Benedetto XV il papa che si era opposto all’«inutile strage» della prima guerra mondiale e che fu osteggiato per questo dai governi e dalla stampa di allora, tutti radicalmente nazionalisti. In Francesco la preoccupazione di una terza guerra mondiale, al centro del suo pontificato, ha trovato una tragica conferma nel conflitto che insanguina attualmente l’Ucraina invasa dalla Russia. L’opposizione alla guerra è una costante dei papi del ‘900 e, a partire dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, è divenuta una costante del magistero. Fratelli tutti, la terza enciclica di Francesco promulgata il 5 settembre 2020, è un invito pressante al dialogo e all’incontro tra i popoli, ad evitare che le opposizioni degenerino in contraddizioni. Purtroppo il quadro manicheo, l’eterna divisione tra Est ed Ovest, ha preso di nuovo il sopravvento a causa della scellerata decisione dell’uomo del Cremlino.
Papa Bergoglio ha messo in evidenza il pueblo fiel e l’importanza dei movimenti popolari mentre nelle istituzioni ecclesiali appare sempre ricorrente la fascinazione di rivolgersi alle elites per incidere poi nei popoli. È arrivata con Francesco la svolta delineata dal Concilio?
La categoria del pueblo fiel in Bergoglio indica la dimensione del popolo credente, cristiano. Una realtà ben presente in America Latina e che noi, in Europa, facciamo fatica a decifrare. Il processo di secolarizzazione da noi riguarda tanto le realtà popolari quanto le elites. In questo senso la sfida della fede e per la fede è, in Occidente, più radicale. Francesco è certamente un papa conciliare e non si comprende il suo pontificato se non a partire dal Vaticano II che egli intende promuovere contro il vento conservatore che spira oggi nella Chiesa. Non direi, però, che egli sia il papa della “svolta”. In realtà tutti i papi degli ultimi 60 anni, da Giovanni XXIII in avanti, hanno rappresentato, con stili e forme diverse, il vento del Concilio.
Dalla vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi ai veleni di vatileaks e la piaga degli abusi, gli scandali che toccano il Vaticano fanno venire alcune domande. Come fa la Chiesa a proporre soluzioni sul governo globale del mondo se neanche in un mini Stato riesce a bandire le peggiori logiche di potere? Come si può leggere la grandezza del messaggio cristiano dentro queste contraddizioni?
Potremmo osservare che il Vaticano, oggi come ieri, non è il posto migliore per alimentare la fede! La Chiesa, lo sappiamo, è, come dicevano i Padri, una casta meretrix («casta prostituta»). Questa consapevolezza non la esonera dal compito, ogni volta attuale, di riformarsi, di togliersi di dosso la “sporcizia” di cui parlava il cardinal Ratzinger nel 2005. Ciò non toglie che nella sua miseria risplenda una grandezza immeritata, quella di Cristo che, attraverso di essa, continua nella sua opera di trasformazione della storia.
Il declino della Chiesa in occidente è irreversibile? Ci si avvia all’”opzione Benedetto” inteso come dice il teologo Dreher nella scelta del giovane santo che scappa dalla Roma corrotta per rifugiarsi nell’eremo di Subiaco per rifondare la Chiesa e quindi l’Europa?
No, “l’opzione Benedetto” proposta da Rod Dreher in un suo fortunato volume, che tanto successo ha avuto negli Usa e da noi, rappresenta solamente il punto di fuga di un conservatore cristiano americano deluso dalla deriva trumpiana del partito repubblicano. In realtà non si tratta di rifugiarsi in luoghi protetti, fuori dal caos delle metropoli, ma di testimoniare in modo umanamente credibile la novità cristiana nel mondo, quello di oggi, che non ha la più pallida idea della fede e della tradizione cristiana. Questo richiede esperienze di vita, maturate in ambiti comunitari ed ecclesiali aperti, non integralisti. Richiede processi formativi capaci di orientarsi, anche dal punto di vista culturale, in un mondo complesso, molto diverso da quello sognato negli anni ’60. Mi permetto, a tal fine, di rimandare ad un mio articolo che ho pubblicato di recente a fine dicembre su il Sussidiario.
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