Bombe e lavoro, l’ora della verità
Il due volte ministro, al Lavoro e allo Sviluppo economico, nonché vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio mostra la sua preferenza per la comunicazione diretta, senza filtri e mediazioni, con brevi video che trasmettono messaggi netti e chiari.
Lo è stato, senz’altro, quello messo in rete poco dopo l’approvazione alla Camera, lo scorso 26 giugno, della mozione che invita il governo ad interrompere l’invio di bombe e missili ad Arabia saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Un vero e proprio passaggio epocale, rispetto ai precedenti governi, che prende di mira la produzione della Rwm Italia con sede operativa in Sardegna, tra Domusnovas e Iglesias, nel Sulcis Iglesiente.
Il video di Di Maio è ineccepibile, ma sconta il grave problema della mancanza di una politica industriale nazionale, assieme alla incapacità, anche solo teorica, di contrattare con la proprietà tedesca della fabbrica, che potrebbe decidere di far produrre, in Italia, materiale bellico destinato ai clienti europei, tacitando così ogni scandalo.
Chi sta al comando di una multinazionale sa bene di dover bilanciare i rischi per i propri azionisti. Non può, perciò, credere di continuare ad esportare armi pesanti, come le bombe d’aereo, a un Paese, come quello saudita, che guida una coalizione militare coinvolta in un grave disastro umanitario denunciato in sede Onu e fatto oggetto di risoluzione espressa dal Parlamento europeo.
Paventare l’interruzione dell’attività, facendo presagire la chiusura senza alternative, fa insorgere molti dubbi sulla strategia del consiglio di amministrazione della Rheinmetall Defence dove siedono anche ex ministri del governo di Berlino. Non è solo con il ricatto occupazionale che si possono gestire grandi aziende che dovrebbero muoversi dentro un perimetro di valori europei condivisi.
E, per non essere a ricasco delle scelte altrui, una politica nazionale coerente dovrebbe finanziare il Piano Sulcis regionale coinvolgendo lo strumento previsto in questi casi e cioè Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, di proprietà del ministero dell’Economia.
Certo, non sono scelte che possono improvvisarsi da un giorno all’altro, ma non bisogna attendere l’esplodere di una crisi annunciata per correre ai ripari. E di segnali ne sono arrivati parecchi.
Sembra una storia destinata a ripetersi. Ad esempio, solo dopo tante sofferenze e incertezze degli operai, poco prima delle elezioni politiche del 2018 l’allora ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha presentato il piano di Invitalia con la svizzera Sider Alloys per ciò che resta, in Sardegna, dell’ex Alcoa. Parliamo, cioè, di un sito dismesso dalla multinazionale statunitense che, nel 2012, annunciò un piano di ristrutturazione e la dismissione dell’attività in Italia entro il 2014, con conseguente trasferimento della produzione in Arabia Saudita.
Non si comprende, perciò, il motivo che ha spinto i proponenti della mozione di stop alle bombe a rimuovere dal testo l’impegno per il governo a promuovere efficaci attività di riconversione economica e industriale. Pino Cabras, primo firmatario della mozione assieme al collega leghista Formentini, è un deputato sardo del M5S con una formazione geopolitica significativa, è stato condirettore con Giulietto Chiesa della rivista Megachip, e ha scritto una tesi di master universitario su “La riconversione dell’industria a produzione militare nell’area di Firenze”.
I processi di riconversione sono visti, a ragione, con sospetto dalle maestranze perché, spesso, sono stati gestiti sull’onda della emergenza conducendo a demansionamenti, ristrutturazioni pesanti, se non a veri e propri licenziamenti scaglionati nel tempo. Si pensi alla via crucis che vivono gli ex dipendenti della Fiat di Termini Imerese, in Sicilia, dopo che la proprietà degli Agnelli ha deciso, nel 2011, di trasferire la produzione in Serbia.
Anche in questo caso, una scelta improvvisa, ma latente da anni, ha comportato la chiamata in causa di Invitalia con diverse ipotesi di riconversione dell’industria, andate in fumo fino al clamoroso arresto, a marzo 2019, per distrazione di fondi pubblici, dei vertici di una società che doveva farne il polo della mobilità ibrida.
La mancanza di alternative reali, frutto di una politica inadeguata, conduce così, inevitabilmente, a giustificare la produzione bellica, pur inserita nella filiera di fornitura alla coalizione saudita, come un male minore. In questo senso si è già espressa la nuova giunta della Regione Sardegna, con l’assessore al Lavoro.
Anche l’amministrazione del comune Domusnovas ha invitato i sindaci del territorio a sottoscrivere un appello al governo perché non metta in pratica l’invito della mozione votata in Parlamento. Il messaggio è stato condiviso da 10 di loro su un totale di 22 comuni del Sulcis-Iglesiente, ma tanto è bastato per far circolare la notizia di un coro unanime a favore del lavoro nonostante tutto.
Molto più articolato e interessante il documento della rappresentanza territoriale di Cisl e Cgil. Parte con un tono molto difensivo, stigmatizza le campagne denigratorie verso i lavoratori, definisce l’insostenibilità di ogni ipotesi di riconversione della fabbrica ed enumera i fallimenti dei progetti avviati nel settore minerario, ma prende di mira, come velleitaria, anche la riconversione della Valsella, cioè l’azienda bresciana che ha riempito mezzo mondo di mine antiuomo.
Eppure proprio questo esempio, bisogna ricordare, è stato la testimonianza più alta del mondo del lavoro, perché sono state le operaie a decidere di rifiutare di fabbricare strumenti micidiali di morte, senza dover attendere l’approvazione del trattato internazionale di messa al bando delle mine antiuomo. Anche in tal caso la proprietà, espressione dei vertici del capitalismo italico, non ha fornito alcuna alternativa, ma ha perseguito i propri interessi fino all’imposizione del divieto internazionale, dopo aver venduto, tra l’altro, 9 milioni di mine all’Iraq che le usò nella guerra contro l’Iran.
Il sindacato, crediamo, non può ovviamente giustificare tali strategie imprenditoriali, ma pone in evidenza che certe scelte politiche non possono avvenire con blandi ed effimeri processi di riconversione. In questo senso, invita il governo italiano a farsi protagonista di un’azione di pace in Yemen e, molto più realisticamente, a promuovere “un progetto programmatico dell’industria bellica europea” basato sull’esercito comune.
Non sappiamo, al momento, se le organizzazioni sindacali stiano attivando i collegamenti con i loro colleghi tedeschi per un’azione comune in questo senso. Esistono, infatti, i Cae, comitati aziendali europei, che hanno come scopo almeno lo scambio di informazioni fra i dipendenti dei gruppi multinazionali per evitare comportamenti scorretti e competizioni indebite tra di loro da parte della proprietà.
Resta il fatto che, in assenza di proposte di una coerente politica industriale nazionale e all’insorgere di una viva preoccupazione per le scelte inesorabili della Rheinmetall, solo il comitato riconversione Rwm, nato da 2 anni, ha tentato di mettere assieme le competenze dell’università di Cagliari con alcune idee di iniziative economiche alternative sul territorio.
Può essere un segnale da riconoscere. Per nulla velleitario, perché è radicato nel territorio e non si è mai posto il solo obiettivo di fermare i carichi di bombe, bensì di promuovere un’economia degna per la Sardegna e l’Italia.
Un messaggio che non può restare confinato nell’isola, anche perché hanno ragione le segreterie territoriali di Cgil e Cisl a ricordare che non è certo la Rwm «l’unica azienda operante in Italia che produce ed esporta materiale bellico».
Finmeccanica Leonardo, ad esempio, ha firmato un contratto per la fornitura di 28 velivoli Eurofighter Typhoon all’aviazione del Kuwait, Paese che aderisce alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita nel conflitto in corso in Yemen. È solo un accenno alla complessità della questione dell’industria bellica, che aiuta a comprendere meglio le ragioni di tante contraddizioni e misteriosi silenzi.