Bombe a grappolo e la pietà che la guerra distrugge
Cosa ci fa capire la questione delle bombe grappolo (o cluster bombs) che è riuscita ad entrare nel dibattito pubblico anche in Italia?
Innanzitutto è emerso il fatto che tali armi, definite particolarmente disumane, continuano ad essere prodotte, vendute e utilizzate nei conflitti perché ritenute evidentemente efficaci e utili in alcuni contesti da parte di quei Paesi che non hanno firmato la convenzione di Dublino del 2008, aperta alla firma nello stesso anno a Oslo che le ha messe al bando. Entrata in vigore il primo agosto 2010, senza l’adesione di una serie di stati: Russia, Usa, Cina , India, Ucraina, Arabia Saudita, Pakistan, Israele e altri.
Di cosa parliamo? La campagna italiana contro le mine le definisce chiaramente in tal modo: «Le munizioni a grappolo sono lanciate da artiglieria, razzi, missili e aerei. Si aprono a mezz’aria e disperdono decine o centinaia di submunizioni, chiamate anche bomblets, su un’ampia area. Le munizioni a grappolo non solo uccidono al momento dell’impatto, ma lasciano anche una scia letale di ordigni inesplosi che minacciano le vite per gli anni a venire».
A fine giugno 2023 la Ong Human Rights Watch ha accertato il largo uso di tali ordigni, oltre alle mine antiuomo, da parte dell’esercito russo e di quello ucraino dopo l’invasione di Mosca del 24 febbraio 2022. Una tragedia che dura da oltre 500 giorni senza apparenti vie di uscita all’orizzonte.
La questione che fa discutere il fronte occidentale di tale conflitto è la decisione del presidente Usa Joe Biden di fornire di bombe a grappolo l’esercito di Kiev per ristabilire una parità strategica contro le truppe di Putin e perché sembra che le scorte di munizioni “normali” siano in via di esaurimento nonostante l’eccezionale sforzo del sistema produttivo anglo americano e di quello dell’Unione Europea.
Devono esistere motivazioni particolarmente gravi che spingono la Casa Bianca a fare una scelta del genere nonostante lo sforzo di Washington di promuovere una larga coalizione di Paesi uniti dall’adesione ai valori democratici contro l’attrattività crescente dei modelli autocratici, lesivi dei diritti umani.
Sono emersi voci dissidenti tra i democratici statunitensi e da parte dei Paesi europei, Francia e Germania tra questi, che hanno aderito al bando delle cluster bombs. Anche Giorgia Meloni si è espressa in tal senso pur ribadendo la necessità del sostegno militare all’esercito ucraino nella resistenza all’invasione russa. Sono prese di posizione che entrano nel vertice Nato dell’11 e 12 luglio a Vilnius, in Lituania, anche se difficilmente incideranno su un cambio di strategia degli Usa.
Il dilemma sembra del tutto occidentale perché il coraggioso dissenso russo contro la guerra è poco noto in quanto represso violentemente. Ma esiste e va sostenuto, tenendo ben distinti i popoli dai loro governanti.
Ad ogni modo resta l’interrogativo sulla reale incidenza dell’opinione pubblica dei Paesi democratici davanti all’orrore per l’uso delle cluster bombs. Perché razionalmente, una volta che si è definito come prioritario ristabilire la parità militare tra le due parti in guerra, è difficile tirarsi indietro lasciando che l’arma “disumana” sia usata impunemente solo dai russi.
Esiste, almeno nei Democratici statunitensi, un ricorso costante al “realismo paradossale” come espresso nel discoro ad Oslo nel 2009 di Barack Obama che, al momento del ricevimento del Nobel per la pace, disse che «gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace. Ma questa verità deve coesistere con un’altra, e cioè che la guerra, per quanto giustificata possa essere, porterà sicuramente con sé tragedie umane».
Solo recentemente stanno emergendo, fuori da ogni retorica, le ricostruzioni dei crimini di guerra compiuti dagli alleati durante il secondo conflitto mondiale. Dal bombardamento al fosforo della città tedesca di Dresda alla devastazione della popolazione civile negli attacchi a tappeto decisi dal generale Curtis LeMay su 69 città giapponesi, su un’area di 290 chilometri quadrati di costruzioni abitati da 21 milioni di persone. Dal 9 al 10 marzo si contarono 130 mila vittime nel bombardamento di Tokyo.
In tal senso è significativa, per quanto riguarda l’Italia, la ricostruzione storica che ha compiuto il ministro della Protezione civile Nello Musumeci, già presidente della regione Sicilia, in un recente libro sulle vittime civili dei bombardamenti angloamericani, nel 1940-43, mirati per colpire i centri abitati e non solo le infrastrutture militari dell’Isola. Si trattò, d’altra parte, dell’applicazione di tattiche di guerra aerea teorizzate per la prima volta (“Il dominio dell’aria”) dall’ufficiale italiano Giulio Douhet (1869-1930) al quale è dedicata, tra l’altro, la scuola militare aeronautica di Firenze.
La consapevolezza dell’esito letale del proprio agire in guerra è la premessa per ogni strategia che deve prevedere il male minore. Anche l’uso dell’arma nucleare su Hiroshima e Nagasaki fu giustificato da Churchill come strumento terribile ma “provvidenziale” per porre termine al conflitto con un numero di perdite notevolmente inferiori a quello di una prevedibile resistenza ostinata dell’esercito giapponese.
Una prospettiva, quella dell’uso della bomba nucleare, che è divenuta suicida dopo la rapida perdita da parte occidentale dell’esclusiva dell’atomica. Anche se la continua minaccia del suo utilizzo, a partire dal 24 febbraio 2022, non è affatto un bluff come amano pensare alcuni. Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica, che di logica se ne intende, la considera altamente probabile e la avverte come un pericolo reale e imminente.
Si conferma così l’importanza di discutere una messa al bando delle armi nucleari così come previsto dal tratto Onu del 2017. Cominciando dal rimuovere le testate che sono in Italia.
Come, infatti, si può notare nel caso delle bombe a grappolo, la presenza di un trattato che le ha poste al bando incide anche su chi non vi aderisce, per la pressione morale e la condanna esplicita dell’opinione pubblica. Difficile restare indifferenti dopo aver letto la testimonianza di Gino Strada sull’effetto dei “pappagalli verdi”, le mini bombe usare dai sovietici in Afghanistan, sui corpi mutilati dei bambini. Non si può ignorare il fatto che simili ordigni siano stati usati anche dagli Usa su quel territorio dal 2001 con la giustificazione di stanare i terroristi islamisti.
«Amputazione traumatica di una o entrambe le mani, – scriveva Gino Strada – una vampata ustionante su tutto il torace e, molto spesso, la cecità. Insopportabile. Ho visto troppo spesso bambini che si risvegliano dall’intervento chirurgico e si ritrovano senza una gamba, o senza un braccio. Hanno momenti di disperazione, poi, incredibilmente, si riprendono. Ma niente è insopportabile, per loro, come svegliarsi nel buio».
Una volta innescata, la guerra travolge ogni limite e pietà, a prescindere dallo sdegno e repulsione personale. Si finisce per accettare come attenuanti le rassicurazioni dell’industria bellica sul margine sempre più ridotto di mancata esplosione delle bombe a grappolo sul terreno, volendo sperare nel progresso tecnologico che ne annuncia un loro automatico disinnesco a poche ore dal lancio.
Se non si arresta in qualche modo il conflitto, l’escalation finisce per convincere dell’ineluttabilità del male. Ed è questa la consapevolezza che non possiamo rimuovere dalle nostre coscienze. Lo ha capito Vito Alfieri Fontana, l’imprenditore italiano che ha deciso a fine anni 90 di cessare la produzione di mine antiuomo per dedicarsi all’opera di sminamento nei Paesi che ne sono infestati.
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