Bolsonaro presidente del Brasile
Il dado è tratto. Il 55,4% dei votanti brasiliani ha preferito Jair Bolsonaro, mentre il 44,5% ha votato per Fernando Haddad. L’ex militare ha convinto la maggioranza della popolazione di essere l’uomo del momento. Per taluni votanti, letteralmente, è «l’inviato di Dio» per risolvere i problemi del Paese. Il nuovo presidente lo conferma: «Al di sopra di tutto il Brasile, Dio al di sopra di tutti».
Bisognerà vedere se la sua idea di Dio e del Paese includa anche il rispetto dello Stato di diritto e anche tutti i 190 milioni di brasiliani: “afrodiscendenti”, indigeni e poveri moltiplicati dalle trappole della miseria. Finora, non si direbbe. Anche se Bolsonaro ha cercato di attutire in tutti i modi il suo estremismo verbale, cercando di negare di aver detto ciò che aveva detto e affermato sulle donne, sugli avversari politici, sulla dittatura (per la quale ha nostalgia) e sulla sicurezza.
Quest’ultima è stato il principale cavallo di battaglia dell’attuale presidente ed è certo un tema caldo che, come tutte le questioni complesse, non ha soluzioni facili. Gli slogan di Bolsonaro sono conosciuti: «Se i delinquenti usano un revolver, noi dobbiamo usare un fucile»; «Un poliziotto che non uccide non è un poliziotto» e via dicendo. Il problema è che i poliziotti uccidono di già: circa 5mila dei 67 mila morti ammazzati dello scorso anno sono caduti sotto il fuoco delle forze dell’ordine. Molti in circostanze mai chiarite, vittime di esecuzioni sommarie o per aver visto ciò che non dovevano vedere. Le forze di polizia non sono tra le più efficienti e nemmeno tra le più trasparenti. In certe zone, dove riescono a controllare il territorio, praticano estorsioni. Mettere nelle loro mani un potere ancora maggiore non pare sia la soluzione migliore per combattere il crimine.
Bolsonaro dovrà poi vedersela anche con alcune altre questioni. La prima è che per governare avrà bisogno di alleati in Parlamento e li dovrà cercare tra i 30 gruppi parlamentari. Il suo partito di deputati ne ha 52, mentre il suo acerrimo avversario, il Partido dos trabalhadores di Lula, praticamente la somma di tutti i mali secondo la sua campagna, ne ha 57. Con tali alleati dovrà negoziare anche misure che vadano d’accordo con la costituzione, le leggi ed i principi democratici. Non sarà dunque così facile applicare il decisionismo col quale ha sorvolato su questioni come rimettere in sesto l’economia nazionale.
Ci sono poi le nomine per incarichi politici. Bolsonaro dovrà nominare circa 20 mila funzionari di diverso livello. Non ha un’equipe di peso né molta gente esperta attorno a sé. Dovrà ricorrere agli alleati che avranno anche le loro pretese e, dunque, negoziare abbastanza. Non chiunque è disposto ad imbarcarsi in una Armata Brancaleone simile. Tra coloro che avranno modo di presentare la propria “fattura” per l’appoggio concesso in queste settimane di campagna elettorale ci sono i gruppi di potere economico e finanziario, noti per una coriacea capacità di negoziato. E ciò ci riporta al dubbio iniziale: questi settori sono infatti noti per essere propensi a un modello economico nel quale le disuguaglianze non solo non diminuiscono ma si accentuano. E lo hanno appoggiato non per la sua nostalgia per la dittatura, ma per quel capitalismo che assicura loro lauti guadagni, non importa se a spese del resto del Paese. Quel resto della popolazione che ha votato convinto di poter risolvere in un soffio il problema della corruzione e della sicurezza. Come se sistema educativo, sanitario e lavoro decentemente pagato non fossero un aspetto proprio della sicurezza.
Il Brasile è lo specchio di un dibattito che non ha trovato risposte: come gestire un’economia che riduca al minimo le sperequazioni sociali. La ricetta del PT si è affidata al sussidio pubblico più che a programmi produttivi. Il neoliberismo crede ciecamente nella crescita, ma con una distribuzione ingiusta della torta. Conciliare i due aspetti significa sostenibilità, sotto tutti i punti di vista. E non pare possibile farlo con un fucile in mano.