Bolsonaro, la democrazia è un optional
Un caro collega argentino, José María Poirier, conosciuto anche dai lettori di Città Nuova, ha sempre insegnato che non può fare bene (e fare il bene) chi pensa male. Tale criterio può applicarsi al presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Che alcune sue concezioni si inceppino nell’elaborare una sana visione della vita e delle cose, è ormai evidente a tutti, e sempre più anche tra coloro che lo hanno votato. Lo ha dimostrato in poco felici espressioni del passato, ma anche in rivelatrici iniziative del presente. La sua politica anti indigeni consente aggressioni contro coloro che sono abitanti del Brasile fin da prima che arrivassero europei – e tra questi gli italiani dai quali discende il presidente –, seguendo l’idea di considerare la selva una piazza d’affari speculativi e non parte di un bene comune.
Mesi or sono, diede una dimostrazione della sua scarsa conoscenza della politica e della storia, quando nel memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem, a Gerusalemme, ha catalogato il nazismo come ideologia di sinistra. «Che dubbi si possono avere –disse –: nazional-socialismo…». L’affermazione creò imbarazzo persino nel governo amico di BB Netanyahu.
L’ennesima uscita, ben più grave di una semplice gaffe, non è solo questione di ignoranza ma di una concezione pericolosa dello Stato. La scorsa settimana Bolsonaro non ha gradito che la ex presidente del Cile, Michelle Bachelet, nella veste di Alto commisario per i diritti umani dell’Onu, abbia rilevato una «preoccupante riduzione» dello spazio democratico in Brasile a partire dall’incremento dell’uso della violenza da parte della polizia – tra l’altro incoraggiata anche da slogan condivisi dal presidente tipo: il delinquente buono è il delinquente morto –. Bachelet si è anche riferita alla giustificazione della dittatura, come lo ha fatto lo stesso Bolsonaro più volte, rilevando che ciò favorisce l’impunità, in momenti in cui i difensori dei diritti umani sono sotto minaccia.
Il presidente del Brasile non solo ha criticato tale intervento, quale intromissione nelle questioni interne del Paese, ma ha colto l’occasione per un nuovo riferimento alla dittatura cilena ricordando alla Bachelet che se il Cile non si è trasformato in una versione di Cuba, lo si deve a persone come Pinochet che insorsero per sconfiggere la sinistra, della quale era parte suo padre, Alberto Bachelet. Le espressioni di Bolsonaro sono cadute come una secchiata d’acqua fredda sul governo cileno, di destra, tra i rappresentanti politici e della società civile. Alberto Bachelet era generale di brigata e venne torturato a morte dai repressori di Pinochet, nelle cui mani cadde anche la propria figlia Michelle e sua madre, entrambe torturate. Il presidente Piñera ha criticato decisamente l’intervento infelice di Bolsonaro.
Difenderlo diventa veramente impossibile. Perché l’aspetto più inquietante di questa giustificazione di una dittatura è una concezione nella quale lo Stato è associato a una determinata ideologia che può permettersi ogni licenza in merito dello stato di diritto. Va detto che quello di Salvador Allende, pur con limiti ed errori, era uno governo eletto democraticamente e nessuno ha mai potuto dimostrare che effettivamente stava per trasformarsi in una dittatura comunista. Senza cogliere la limitatezza della sua concezione, il presidente brasiliano ha ammesso che il problema non è stata la soppressione della democrazia e dei diritti umani, il ricorso al terrorismo di Stato con l’assassinio di 4 mila “desaparecidos”, l’applicazione sistematica della tortura, ma che ciò non lo abbia fatto la sinistra. Perché, viceversa, se viene fatto dalla destra è giustificabile.
Una concezione del genere impedisce a un rappresentante dello Stato di poter compiere il primo servizio che viene richiesto ai poteri pubblici: aver cura del bene comune, primo tra tutti della democrazia che, per Bolsonaro, è un optional. Che ci sia o no è del tutto secondario. Sarà difficile far bene pensando così male.