Bobby Sands, voce di tutto un popolo
«Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me». Queste parole con le quali Gesù alludeva alla sua morte in croce si possono applicare ad ogni uomo e donna che, sacrificando la propria vita per una giusta causa, assurge a riferimento universale. Come Bobby Sands, i cui scritti – a quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, in un’epoca di Brexit in cui l’Irlanda del Nord torna al centro dell’attenzione – continuano a parlare e a scuotere gli animi con la loro sconvolgente attualità.
È il caso del recente Scritti dal carcere (Ed. Pagina Uno), prima traduzione italiana integrale di tutte le prose e poesie inedite del rivoluzionario irlandese, morto per sciopero della fame nel 1981, a soli 27 anni, nel carcere di Long Kesh a Belfast. Con traduzione e cura di Riccardo Michelucci ed Enrico Terrinoni, che firmano anche introduzione e postfazione, il libro è aperto da una prefazione inedita di Gerry Adams, leader storico dell’IRA, l’esercito repubblicano irlandese di cui fece parte Sands, e poi del partito Sinn Féin.
Bobby, il cui nome di battesimo era Robert Gerard, nacque a Belfast nel 1954. Primogenito di una famiglia cattolica e operaia, visse insieme a genitori e fratelli continui attacchi e discriminazioni nel quartiere a maggioranza protestante di Rathcoole. Un ragazzo come tanti altri. Animatore e attivista di comitati di quartiere, appena 18enne si arruolò nell’IRA («Avevo visto troppe case distrutte, padri e figli arrestati, amici assassinati. Troppi gas, sparatorie e sangue, la maggior parte del quale della nostra stessa gente»).
Nel 1976, avendo già scontato una pena per detenzione illegale di armi, sposato e padre di un bambino di tre anni, Sands venne nuovamente arrestato per essere stato trovato, armato, nei pressi di uno scontro a fuoco. Condannato stavolta a 14 anni di carcere, fu leader dei militanti nazionalisti irlandesi detenuti nei Blocchi H della prigione di Long Kesh che protestavano per il mancato riconoscimento del loro status di prigionieri politici, per le condizioni disumane e la violenza continua a cui erano costretti dal regime britannico.
Nell’ottobre 1980, epoca in cui era capo del governo l’inflessibile Maggie Thatcher, guidò un primo sciopero della fame. È dello stesso anno questa testimonianza rilasciata dal cardinale O’Fiach dopo un permesso di visita ai prigionieri: «Neanche a degli animali permetteremmo di vivere in quelle condizioni […] Ho visto scene simili soltanto tra le centinaia di senzatetto nelle fogne delle aree malfamate di Calcutta. Era quasi insopportabile le puzza e la sporcizia delle celle, i resti di cibo andato a male e gli escrementi umani spalmati sulle pareti. In due di quelle celle non ho aperto bocca per paura di vomitare»
Poiché niente venne cambiato del regime carcerario, Sands iniziò nel marzo 1981 un secondo sciopero ad oltranza. Poco dopo, mentre giaceva nell’ospedale del carcere in un pigiama imbottito per evitare la fuoriuscita delle ossa del suo corpo scheletrico, veniva eletto deputato del Parlamento del Regno Unito: un mandato, il suo, durato solo 25 giorni. Morì infatti tre settimane dopo, il 5 maggio: aveva fatto 66 giorni di digiuno; altri nove compagni di età tra i 23 e i 30 anni l’avrebbero seguito nella tomba. Ma già da tempo Bobby Sands s’era tramutato in icona internazionale di chi lotta strenuamente per la libertà, la giustizia sociale e il diritto alla resistenza dei popoli oppressi.
A lui sono stati dedicati monumenti, ballate, murales, intitolati luoghi cittadini. La sua vita ha ispirato tre film; l’ultimo, Hunger del 2008, diretto da Steve McQueen, evidenzia l’efferatezza con cui le guardie carcerarie dei famigerati Blocchi H torturavano i prigionieri, nonché l’incrollabile determinazione del protagonista e degli altri reclusi nella loro lotta per la causa.
Con le prigionie e la privazione di ogni stimolo mentale (gli erano stati negati stampa, radio e tv), il giovane Bobby aveva reagito diventando giornalista e poeta. Per i suoi testi clandestini, scritti soprattutto per dare coraggio ai compagni reclusi (poesie e canzoni venivano declamate e cantate la sera nelle loro celle, quando i secondini finivano il proprio turno), utilizzava cartine per sigarette o pezzi di carta igienica che, fatti uscire dal carcere con vari stratagemmi, venivano pubblicati con pseudonimo dal giornale An Phoblacht-Republican News.
Nel libro Un giorno della mia vita, in cui parla della sua esperienza carceraria, Sands rievoca gli anni dell’adolescenza, quando ebbe chiara la sua missione: «Ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio Paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista».
Il presente che si riallaccia al passato del suo Paese ricorre in varie poesie a sfondo storico degli Scritti dal carcere. Come in questi stralci da Stella argentea di libertà:
«La tinta scarlatta di fuoco sale alta incontro alla notte,/una regina si svegliò al clangore di catene in cascata impetuosa di luce radiosa./ A Nord brillò una stella argentea di libertà sulla sua testa./ Ed ecco due cavalieri con spade gocciolanti a spargere il nostro Celtico sangue cremisi. […] Oh! E ancora giunsero come i loro antenati a migliaia/ strillando – “Nessuna resa!”./ Un revolver ruggì in una mano tremante, era la resistenza giunta ad offrirsi./Oh! La stella accesa in alto nei cieli, uomini vennero come i saggi di allora,/ a cercare la via della libertà che un tempo conoscevano. […] E abbiamo combattuto e siamo morti, e sulle nostre tombe bimbi hanno giurato sul tuo regno. I Gaeli del Nord ti daranno un trono di gloria, di nuovo sarai regina di smeraldo. E la notte è lunga adesso, non abbiamo camminato tanto, troppo forse?/ Ma guardiamo là dove la notte è chiara, c‘è la tua libertà in quel bagliore, stella argentea».
Costante, in molti dei suoi testi, è il presentimento della morte. Morte peraltro non attesa passivamente, ma voluta come sigillo definitivo alla lotta sua e del suo popolo: «Non m’importa se moriremo, noi uomini liberi,/pur di vedere il giardino in fiore,/ e umili campanule alzare il capo,/ per sollevarsi con tutta la loro forza» (da Compagni nell’oscurità).
Oggi tra i murales di West Belfast campeggia questa sua frase: «La nostra vendetta saranno le risate dei nostri bambini». Certo, risate nate dalle lacrime e che di lacrime parlano.
Secondo Enrico Terrinoni, uno dei due traduttori e curatori della raccolta, «Bobby Sands ci ha insegnato, come tutti i grandi poeti, che cambiare il significato delle parole si può. Si può tramutare la vendetta in risa, e si può insegnare al proprio popolo, non solo a resistere, ma a rinascere e a ridare la voce al silenzio».