Bob Dylan, il più atteso dei Nobel
Erano anni che regolarmente appariva tra i “papabili”. Ma alla fine saltava sempre fuori qualcuno più bravo o più pressante di lui. Ma stavolta il sempiterno mr. Zimmerman c’è l’ha fatta, e a 75 anni suonati può finalmente aggiungere il più prestigioso dei premi a un curriculum che di certificazioni ne aveva già un’infinità. Non tutti, specie in America, hanno gradito (in corsa c’erano mostri sacri come Don De Lillo e Philip Roth), ma a conti fatti l’assegnazione è a parer mio più che legittima, per un artista che ha saputo aprire una nuova strada alla poesia moderna. Perché le sue sono sempre state molto più che semplici canzoni popolari: dentro le sue rime ci trovavi l'America dei tempi nuovi, le inquietudini di realtà sociali e intime, universali e continuamente cangianti, e non di rado, anche gli stessi chiaroscuri e gli agrodolci di ciascuno di noi.
Ma va pur detto che l’ex menestrello del Minnesota, coi suoi guizzi creativi, le sue continue invenzioni poetiche e musicali, i tempi non li ha mai cavalcati: ha sempre preferito di gran lunga anticiparli, e non di rado ha saputo farlo da vero caposcuola. Senza mai inventare dal nulla, ma aggiungendo sempre alla materia prima qualcosa di indiscutibilmente “suo”. Dal folk primigenio contaminato dal blues, alla sua elettrificazione che tanto indignò i puristi dell’epoca, dalla riscoperta della rusticità country al gospel, fino alle più recenti riletture “da crooner” sinatriano, Dylan ha sempre impastato e reinventato alla sua maniera il preesistente, con una personalità tale da renderlo immediatamente roba sua, e sua soltanto. E la cosa più straordinaria è che continua a farlo ancora oggi, raramente mancando il bersaglio, come spinto da quella medesima febbre creativa che si portava addosso quando da giovanotto imberbe cominciava a farsi largo nei locali del Greenwich Village newyorkese.
Con quel suo ghigno scorbutico sempre addosso, il supremo snobismo col quale già allora si atteggiava, col suo ego strabordante e, soprattutto, la perfetta autocoscienza di un talento sterminato nel raccontare, raccontarsi, e raccontarci. Umanamente era spesso insopportabile (andate a rivedervi il documentario Don’t look back girato nel ’65 nel corso della sua prima tournee inglese, e ve ne farete un’idea), ma quando imbracciava la sua chitarra e saliva su un palco, irradiava solo genialità e carisma. Oggi come allora. E dire che la sua vocalità, così nasale e apparentemente sgraziata è sempre stata lontana anni luce da ciò che potremmo definire una bella voce. Eppure anche quella fece scuola, e continua a farla ancora oggi, generando sempre nuovi epigoni; allo stesso modo in cui seppe imporre il suo rivoluzionario approccio alla “poesia in musica”: giacché fu lui, forse più di ogni altro, a mostrare al mondo che più oltre e più del cosa si cantava, era importante il modo in cui le cose venivano dette e cantate.
Ma questo Nobel ha anche un significato che trascende il personaggio, perché sotto è impossibile non leggerci anche un ulteriore riconoscimento al peso della musica popolare sulla cultura contemporanea, sdoganando definitivamente le canzoni al rango di forma d'arte degna di pari rilievo di qualunque altra composizione colta. Almeno in questo è fin troppo ovvio sottolineare l’affinità fra questo Nobel e quello assegnato anni fa a quel gran giullare di Dario Fo: uno scherzo del destino ha voluto accumunarli nelle cronache nello stesso giorno, ma questa è tutta un’altra storia…