Bob Dylan antico, postmoderno, sempiterno
Sessantacinque anni compiuti a maggio. Profeta primigenio del rock protestatario, padre fondatore del cantautorato moderno, caposcuola del folk-rock d’autore, voce enciclopedica da decenni in odor di Nobel, rockstar planetaria, genio e anticipatore di tendenze. Usate l’etichetta che preferite, ché per il signor Robert Zimmerman, le etichette van bene tutte e nessuna, e in ogni caso, di queste cose a lui è sempre importato meno di zero. E allora atteniamoci ai fatti. Da qualche settimana è arrivato sui mercati il suo ultimo album. Al di là della citazione chapliniana, Modern Times (Sony-Bmg) ha già nel titolo un che di ironico; quando il dischetto comincia a girare, diventa quasi sarcastico. Perché la prima cosa che colpisce da queste nuove canzoni è il suono: un suono splendidamente retrò, costruito in sommo spregio di tutto ciò che oggi va per la maggiore: ruvido blues, richiami al jazz degli anni ruggenti, folk-rock scarnificato. Una gran voglia di radici insomma (e anche in questo Dylan è stato da sempre il più bastian contrario dei trendysti) a ribadire il concetto che più i tempi sono incerti, e più l’etere trasuda di suoni antichi e sicuri. Ma per il Nostro i suoni nulla sono senza le parole. E quelle che schizzano dai solchi di questo album sono ancora una volta parole importanti, poesia alta per forma e contenuti, in costante rimpallo tra l’autobiografico, il religioso e il sociologico. Pochi infatti sono in grado di raccontare i propri tempi come il buon vecchio Bob. Anzi, più che raccontarli, coglierne l’essenza più profonda, scavando tra gli incubi, gli umori, le speranze e le ansie del Reale e del proprio intimo, per cavarne spesso ciò che non è azzardato definire arte. Certo poteva citare Timrod (il poeta ottocentesco dal quale pare abbia attinto qua e là), ma alla fin fine tutto ciò che schizza dai solchi è assolutamente e inconfutabilmente dylaniano. Modern Times è un piccolo capolavoro (che detto da un dylaniano terminale come il sottoscritto non vale granché…), probabilmente il suo lavoro più significativo degli ultimi quindici anni (e questo dice già qualcosa di più). Ma c’è un dettaglio capace di esprimerne il peso meglio di tante parole: il disco ha riportato l’ex menestrello del Minnesota in testa alle classifiche americane trent’anni dopo il suo precedente number one, quel Desire targato 1976: altri tempi, e un altro mondo. Dylan invece è sempre lui, anche se un pelo meno introverso del solito: con la sua voce da cane bastonato, il timbro nasale, quelle suo inconfondibile oscillare tra i velluti delle ballate menestrelliche e la cartavetro di frammenti rock-blues al limite del low-fi; qua e là inedite colorature anni Quaranta a rendere più gustosa la ricetta. E anche questo qualcosa vorrà pur dire… Chi adora Dylan non ha bisogno d’altro, chi non lo regge difficilmente troverà tra questi solchi motivi per cambiare parere. Ma chi sta nel mezzo (compresi i giovanotti e le signorinelle che di lui conoscono giusto Knocking on heavens door, magari nell’imbarazzante versione di Avril Lavigne, o peggio ancora, la storpiatura scoutistico- parrocchiale di Blowing in the wind – l’imperdonabile Risposta non c’è) magari farebbe bene a buttarci l’orecchio: perché questa è opera destinata a lasciare il segno: sulla scena culturale odierna prima ancora che sui mercati. CD Novità Cisco La lunga notte (Mescal) Ruspante e schierato, l’ex leader dei Modena City Ramblers, debutta da solista con un album verace, nel segno d’un folk d’autore dall’anima cosmopolita. Contenuti importanti, spesso zavorrati da forme ed approcci un po’ troppo didascalici. Justin Timberlake Futursex – Lovesounds (Sony-Bmg) Un teen-idol più adatto per uno studio televisivo che d’incisione. Al di là della sontuosa produzione, il nostro è solo un Robbie Williams in minore: per talento, carisma e qualità dei brani.