Blade Runner 2049
Dimenticare il lavoro di Ridley Scott nel 1982, e ambientato nel 2019, cioè fra due anni? La Los Angeles di allora, adesso, nel 2049, nel sequel diretto da Denis Villeneuve, è fangosa, inquinata, meticciata, umani e replicanti si confondono. Prima, gli umani avevano creato i “replicanti” – robot umanizzati per alleviare i loro compiti -, ora questi nuovi schiavi perfetti non vogliono “morire”.
Nel primo film l’agente Rick Deckard (Harrison Ford) chiudeva, dopo la morte del replicante dal volto duro, con un interrogativo sul futuro, piuttosto ambiguo. Ora, il nuovo agente K (Ryan Gosling) è un essere che deve far morire altri esseri, non ha vita facile in una opprimente città iperbarocca, e vorrebbe risposte. Il motivo di fondo è semplice: prova sentimenti, desidera conoscere chi sia veramente, vuole vivere ed amare, forse essere “umano” sul serio. Nel confine sottilissimo tra realtà vera e realtà virtuale – più vera di quella autentica – il racconto si snoda nella serie di domande poste e con risposte difficili da accettare o evase, forse perchè in definitiva sono non-risposte. «Ho un’ anima?» chiede K (Ford nel primo film domandava quale fosse la sua vera anima). Madame gelida gli risponde: «No!», cioè lui è un replicante, non un umano. Ma sarà vero, cosa sarà allora il “miracolo” che viene a conoscere di una nascita “naturale” di cui trova le tracce? Ed il creatore – la Tyrrell Corporation, il cui fondatore era stato ucciso nel film del 1982 – è un dio senza volto, senza pietà che sparge illusioni e ama confondere umani e replicanti, come è K e come forse è Deckard che il giovane cerca per “spegnerlo”?
Villeneuve colloca le domande metafisiche ed esistenziali negli spazi surreali di piogge, nebbie, nevicate che i replicanti apprezzano, “sentono” e forse amano, per gran parte del film che si dipana come un lungo affresco dove si incastrano storie e personaggi: cercano tutti l’amore, in qualche forma? È la sola cosa che la civiltà virtuale non riesce a dare, se ha spento l’anima. Eppure, i replicanti la vorrebbero. Nell’ultima parte K ritrova Deckard e il film diventa azione, effetti speciali, meno filosofico. Ma l’ombra lunga nella sporca Los Angeles si fa duello tra morte e vita, tra amore e dolore, tra verità e finzione che vuole sostituirsi alla verità.
Al di là della bellezza visiva (certe scene “naturali”ricordano tele di Rothko), e della interpretazione riuscita sia di Gosling che di Ford (parla con il solo volto “segnato”), il ritmo ora lento ora dinamico che caratterizza questo epos metafisico-virtuale si pone come una inquietante domanda sul nostro tempo e il nostro prossimo futuro. Il pericolo di un mondo virtuale senza umanità – senza amore vero – è ormai reale. Villeneuve lo filma con angoscia sottesa (senza però il pessimismo cupo della prima versione), lasciandoci sospesi in una ulteriore domanda di senso. Forse questo è il merito del suo racconto, ben oltre la magia visionaria e la tecnica sbalorditiva.