Black sunday: Erdogan picchia duro
L’hanno subito chiamata black Sunday, la domenica nera. La polizia ha compiuto dei raid all’interno delle sedi degli organi di stampa e delle reti televisive che negli ultimi mesi si sono dichiarate chiaramente in opposizione al presidente Recep Tayyip Erdoğan, arrestando una trentina di giornalisti. L’operazione non si è sviluppata solo a Istanbul, ma è stata realizzata pressoché contemporaneamente in tredici città del Paese.
Nel mirino particolare della polizia sono risultate le sedi del quotidiano Zamane e della rete televisiva Samanyolu Broadcasting Group. Entrambi i direttori sono stati arrestati con l’accusa di avere dato vita, capeggiato o, comunque, di essere parte di organizzazioni terroristiche. La testata e la rete televisiva sono fra le fonti giornalistiche televisive che più hanno criticato l’attuale governo per via di sospetti di corruzione venuti alla luce nel dicembre del 2013.
In questi giorni il Parlamento aveva approvato in tempi brevi una legge che dà il potere alle autorità di polizia e giudiziarie di arrestare persone che siano sospettate, in base a sospetti ragionevoli, di crimini. Nel caso dei controlli a sorpresa effettuati domenica l’autorità giudiziaria ha emesso un ordine di perquisizione ed arresto su basi confidenziali. Per questo motivo né i sospettati né i loro avvocati possono prendere visione dei capi di accusa che hanno portato al loro arresto e alle perquisizione dei loro uffici.
Nel mirino dell’operazione c’è il movimento Hizmet, fondato dal leader religioso Fetullal Gülen, che da anni si trova negli Usa, che nei mesi scorsi ha attaccato violentemente il presidente Erdoğan. Il braccio di ferro fra quest’ultimo e il potente movimento di ispirazione religiosa, che ha dato vita a migliaia di scuole all’interno della Turchia e all’estero, ha avuto momenti di grande tensione nei mesi scorsi culminati della revoca del permesso di alcune scuole di esercitare i loro programmi educativi.
Il quotidiano Zaman è uscito ugualmente riportando foto delle operazione di arresto e dei vari momenti dei blitz ed articoli che ne descrivono particolari e probabili retroscena. Da tempo continua il braccio di ferro fra governo e Hizmet e recentemente il presidente aveva definito il movimento di rinnovamento religioso ed educativo come una «struttura parallela», parte di un complotto che mirava a scalzare il governo.
L’operazione ha tuttavia suscitato proteste non solo di giornalisti ma anche dell’opposizione intera che è scesa in piazza per manifestare contro i blitz e gli arresti e per quella che viene ritenuta «una prevaricazione dei diritti umani e della libertà dei cittadini e del popolo». Le manifestazioni sono state molto vivaci sia a Istanbul davanti alla sede di Zaman che ad Ankara, davanti al tribunale della capitale. Ma anche la sede del tribunale della metropoli sul Bosforo ha visto radunarsi migliaia di manifestanti che hanno protestato in segno di solidarietà con gli arrestati.
Cartelli con titoli vari –«Media liberi non possono essere zittiti»; «Diciamo basta alla mancanza di legge»; «Non abbiamo paura di chi è crudele» – e slogan urlati dai manifestanti hanno subito messo in chiaro che l’opinione pubblica turca non è tutta con la politica del nuovo corso del presidente eletto nel 2014, dopo un decennio di potere come primo ministro.
In Turchia l’opposizione non ha mancato di affermare che il Paese «sta assistendo ad un vero colpo di Stato civile e si tratta di un atto contro la democrazia», ha dichiarato Kemal Kılıçaroğlu, leader del Republican People's Party (Chp), il principale partito di opposizione allo strapotere del presidente Erdoğan. Il rappresentante dell’opposizione ha tenuto a precisare che tutto è cominciato o si è aggravato con le accuse di corruzione che erano apparse sui media, almeno alcuni, nel dicembre del 2013.
Dopo quelle notizie trapelate attraverso alcuni dei media che sono risultati oggetto dei blitz, ha affermato Kılıçaroğlu, il governo ha stretto la morsa per evitare, secondo il leader politico, che le accuse di corruzione contro il presidente, che coinvolgevano anche alcuni membri della sua famiglia, potessero essere usate come agenda politica.
L’atto del governo turco è stato condannato con fermezza sia dagli Usa che dall’Unione europea che ha definito come inspiegabile ed «inaccettabile un attacco alla libertà dei media». La Mogherini ha chiesto ufficialmente alle autorità turche di tornare a rispettare i diritti dei giornalisti.
È difficile, comunque, riuscire a leggere in maniera adeguata quanto da tempo sta avvenendo in Turchia. È evidente che è in atto una lotta di potere non solo politico, che coinvolge la società, l’amministrazione e vari altri elementi, legati anche all’attuale situazione che investe tutto il Medio Oriente. È pericoloso lasciarsi andare a giudizi affrettati da questa parte del Mediterraneo. Sebbene la politica internazionale, l’Unione europea in particolare, abbia compiuto un atto dovuto nel condannare l’operazione svoltasi oggi contro la libertà di stampa, sarebbe opportuno trovare vie sicure per cogliere dall’esterno quanto sta veramente accadendo nel Paese ponte fra Asia ed Europa.
È bene altresì non dimenticare che non solo è in corso un riassetto degli equilibri del Medio Oriente a costo di migliaia di vite e di guerre che distruggono Paesi interi (Siria e Iraq su tutti), ma è anche in atto un ben più complesso processo di riequilibrio fra le varie voci dell’Islam, dal wahhabismo saudita allo sciismo soprattutto in Iran, Iraq e Libano.
Resta molto difficile per l’Europa decifrare quanto veramente stia accadendo, anche perché a questi processi senza dubbio abbastanza recenti si unisce la vecchia tentazione di controllo del potere, che non conosce partiti politici, tendenze religiose o altro, ma è semplicemente radicata nel cuore degli uomini e può assumere le colorazioni più diverse.
Forse è proprio qualcosa del genere che sta accadendo in Turchia.