Tra bioetica e biodiritto: la logica della cura
Il 3 maggio ci ha lasciato il professor Francesco D’Agostino, già presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani, professore emerito nell’Università di Roma Tor Vergata nonché membro della Pontificia accademia per la vita e del Comitato nazionale per la bioetica, un instancabile studioso della filosofia, del diritto e della bioetica.
Era un uomo sensibile il prof. D’Agostino, una sensibilità piena di intelligenza e di amore per l’approfondimento, la ricerca di un senso; uno grande studioso, un fine giurista e un arguto filosofo. Uno studioso proiettato oltre la bioetica. Il professor D’Agostino non si è limitato all’analisi e alla discussione, sempre molto pacata e dialogica, sui diversi temi della bioetica, ma si è spinto oltre, cercando di coinvolgere l’attenzione degli studiosi e del pubblico sugli aspetti più critici della stessa bioetica, esortando le nuove generazioni di bioeticisti a un atteggiamento più critico nei confronti dell’approccio stesso ai temi bioetici, del metodo di studio e dell’indispensabile interdisciplinarietà degli approfondimenti in ambito bioetico, un vero e proprio invito a una nuova “Critica della Bioetica”.
«L’etica è calda, il diritto è freddo», affermava D’Agostino osservando come la bioetica, rispetto al biodiritto, avesse la necessità di rivendicare una sua priorità, soprattutto sotto il profilo della legittimazione pubblica all’obiezione di coscienza bioetica, anche al fine di ostacolare quel processo di arido e macchinoso assorbimento (D’Agostino parlava, addirittura, di cannibalizzazione) messo in atto dal biodiritto nei confronti della bioetica.
D’Agostino ha esortato a ripensare agli effettivi spazi della bioetica attuale, una bioetica sempre più sopraffatta da una biogiuridica “arrogantemente convinta di essere l’unica e la doverosa paladina dei diritti fondamentali” (F. D’Agostino, Bioetica Questioni di confine, Studium, Roma 2019, p.36).
L’illusione naturalistica e il principio di precauzione. D’Agostino ha più volte invitato ad andare oltre il principio di precauzione perché esso è utile quando serve ad imporci una attenta ponderazione tra i costi e i benefici inerenti ad ogni innovazione pratica scientifica ma – sostiene D’Agostino – il principio di precauzione non è condivisibile quando viene utilizzato nell’illusione di poter frenare il progresso della scienza e della tecnica: «denunciare i numerosi vicoli ciechi del progresso serve solo a stimolare la ricerca per trovare altre strade che portino ai medesimi risultati; le denunce sono doverose, ma sfruttarle ideologicamente, per contrastare pratiche che appaiono eticamente inaccettabili, è epistemologicamente errato» (F. D’Agostino, Bioetica. Questioni di confine, Studium, Roma 2019, p.37).
D’Agostino esortava ad abbandonare la logica difensivistica che, più volte, ha caratterizzato la bioetica, soprattutto quella di matrice cattolica; ha avuto il coraggio di criticare più volte la bioetica tradizionale, soprattutto quando si è limitata ad attorcigliarsi sulla considerazione che la vita è un bene assoluto in sé arrivando quasi a legittimare l’accanimento clinico-terapeutico.
La vita che siamo chiamati a tutelare, non è epica – osserva D’Agostino – «ma è tragica e si offre al nostro sguardo in un contesto non di trionfante pienezza, ma di paradossale finitudine o per meglio dire di tragica difettività», perché la fragilità non è un contributo estrinseco del bios, ma il suo connotato più proprio, tanto che D’Agostino sostiene che «prima di affermare il diritto di un soggetto fragile ad essere curato andrebbe piuttosto con molta maggiore energia sottolineata la sua formulazione opposta, secondo la quale esiste un dovere universale di prendersi cura di chi sia fragile» (op. cit., p.38).
Se rinunciamo alla lettura epica della vita, sostituendola con la realistica lettura tragica del bios, la bioetica potrebbe iniziare un percorso di risalita, verso la conquista di nuovi spazi di discussione, di studio e di analisi, attraverso un metodo capace di percepire il bios nella sua autenticità e, quindi, nella considerazione piena di quelli che sono i limiti (anche più tragici) della vita: «Mentre il disprezzo e la negazione del limite fomentano l’arroganza del più forte nei confronti del più debole, l’accettazione del limite attiva i doveri reciproci delle persone, che, quando elaborano la consapevolezza di essere contrassegnate tutte dalla medesima difettività, si sentono tutte chiamate a prendersi cura allo stesso modo dei più deboli e dei più fragili» (op. cit., p.39).
La stessa biogiuridica, che rischia di rimanere una fredda disciplina accademica, secondo D’Agostino, grazie a questa logica della cura del più fragile, potrebbe svincolarsi da questo rigido freddo, dando così forma e sostanza a un’etica pubblica capace – pienamente e in maniera più calda – di riconoscere (e quindi tutelare) i diritti dell’uomo.
Francesco D’Agostino è stato studente e degno successore di Sergio Cotta, già professore titolare della cattedra di filosofia del diritto alla Sapienza di Roma dal 1966 al 1990; come ebbe a ricordarmi lo stesso D’Agostino, Cotta cercò di dare al giusnaturalismo un fondamento non tanto razionale ma, piuttosto, fenomenologico-strutturale. Per cogliere la sensibilità e l’ingegno di D’Agostino, occorre fare un salto in questa fenomenologia di Sergio Cotta, ad esempio attraverso l’eccellente approfondimento del professor Francesco Zini, Il debito di essere nell’ontofenomenologia giuridica di Sergio Cotta forum-v05-a56.pdf (pusc.it)
Il mio personale ricordo. Nel marzo del 2020 ebbi l’opportunità di un confronto personale con il professor D’Agostino, sul tema dell’accanimento terapeutico e delle raccomandazioni che conclusero il documento approvato dal Consiglio nazionale di bioetica (mozione del 30 gennaio 2020 Comitato Nazionale per la Bioetica – Accanimento clinico o ostinazione irragionevole dei trattamenti sui bambini piccoli con limitate aspettative di vita (governo.it)). Furono queste le sue parole quando provai a chiedergli il motivo della sua astensione: «In realtà avrei potuto votarlo anch’io, proprio per la ragionevolezza delle sue raccomandazioni; mi sono astenuto per mandare un messaggio (che non è stato né raccolto né capito)… Se si fa bioetica, solo per avere il consenso di tutti o il più ampio consenso possibile, la si banalizza… cioè (uso un’espressione un po’ forte) la si uccide». Come a dire che il Consiglio nazionale di bioetica aveva elaborato delle ottime raccomandazioni ma che, forse, per dar vita ad una bioetica più critica e capace di scelte più coraggiose, occorreva mettere in atto delle scelte diverse, soprattutto in una materia così delicata come quella dell’accanimento clinico dei trattamenti sui piccoli pazienti pediatrici.
Anche questo ultimo aspetto, rende bene l’idea del prezioso calibro del filosofo, del giurista e del bioeticista Francesco D’Agostino, uno studioso contrario alla ricerca sfrenata del consenso di tutti, un ricercatore profondamente critico nelle questioni del bios, ma soprattutto un uomo che aveva incarnato il fine primario di farsi carico (in prima persona) delle tragicità della vita, a tutela delle persone più fragili, prendendosi cura di loro, sempre alla ricerca di un possibile (seppur profondamente complesso) equilibrio tra la bioetica e il biodiritto.