Biochar, una frontiera per la CO2

Il tema delle emissioni di CO2 è sempre al centro del dibattito. Troppo spesso, però, se ne parla solo dal punto di vista dei grandi impianti. Ancora molto poco, come per questo progetto di installazione di fornelli piritici in Burundi, dal punto di vista dell'impatto sulla vita quotidiana delle persone. L'articolo è stato pubblicato sul focus di luglio 2024 dedicato all'ambiente, disponibile gratuitamente sull'app CN edicola.
Un fornello pirolitico in funzione.

Intervistiamo Lucia Brusegan, presidente dell’International Biochar Initiative (IBI) e membro dell’Associazione Italiana Biochar ICHAR, e Stefano Giovannelli, che si occupa di business development per il biochar per conto di Starter e autore del romanzo di fantasia, edito Porto Seguro dal titolo “Villa coloniale in vendita” (recensito da Città Nuova nel mensile di Ottobre 2021). Il testo tratta di un progetto di installazione di fornelli pirolitici in Mozambico, un paese in cui Stefano Giovannelli ha lavorato e in cui potrebbero oggi svilupparsi nuovi progetti biochar.

Cos’è il biochar?

Si tratta di una sostanza abbastanza semplice, anche da comprendere. È un bio-carbone, dall’inglese biochar. Viene prodotto a partire da residui organici e forestali, tramite un processo di combustione lenta che si chiama pirolisi. Come funziona? C’è una specie di fornello, definito pirolitico, dove all’interno viene messa la biomassa (i residui). Questa viene poi bruciata in assenza di ossigeno, è questa la differenza rispetto a un fuoco normale. Mancando l’ossigeno, non si generano emissioni in atmosfera. Quindi, la biomassa viene trasformata in energia, sotto forma di gas o di bio-olio, di calore, e di biochar. Insomma, questa pirolisi fornisce due tipi di output: energia e biochar, che assomiglia alla vista al carbone, ma non lo è, in quanto questo viene bruciato per ottenere energia, rilasciando CO2.

Il nostro biochar, invece, viene utilizzato come strategia per mitigare i cambiamenti climatici e quindi per sequestrare il carbonio atmosferico. In che modo? È un “ammendante” dei suoli, agisce potenziando l’effetto dei fertilizzanti, oppure viene inserito nei materiali. Infatti, una delle grosse tendenze che stanno emergendo adesso è che il biochar, venendo da fonti rinnovabili, può sostituire, in parte o completamente, materiali di origine fossile che vengono utilizzati per esempio nel cemento negli asfalti, nei bio-compositi, nelle plastiche. Addirittura, sembrerebbe possa anche sostituire il grafene… La ricerca è straordinaria perché sta trovando sempre più usi.

Come è stato scoperto?

È una tecnologia antichissima, conosciuta dagli indios dell’Amazzonia ma anche dalle comunità in Africa e in Cina, centinaia di migliaia di anni fa. Un esempio: le “terre preta” dell’Amazzonia, nell’area di Manaus in Brasile. Lì c’è un sito dove Wim Sombroek – ex Segretario Generale della Società Internazionale di Scienza del Suolo tra il 1978 e il 1990, Direttore della Divisione “Terra e Acqua” presso la FAO e importante ricercatore sulle Terre Prete – negli anni ’80 del Novecento, studiando delle immagini satellitari, ha notato che in quell’area dell’Amazzonia il terreno era particolarmente fertile rispetto al suolo circostante.

È stato necessario recarsi sul posto per capire cosa avesse di speciale questo terreno. Così, lo studioso ha osservato un’altissima concentrazione di carbonio nel suolo e residui organici, lasciati deliberatamente dall’essere umano con l’intento di renderlo più fertile. Tra le varie sostanze applicate sul terreno c’era anche questo bio-carbone, che ne ha determinato la produttività straordinaria. È nato così tutto un filone di ricerca. In particolare, se ne sono occupati gli scienziati del suolo dagli anni ’90. Un po’ alla volta si è riusciti a capire che proprio l’applicazione del biochar ha determinato la fertilità del suolo.

Quello trovato era lì da tantissimi anni, quindi si è anche capito che questo bio-carbone, messo per terra, ha una notevole durata e persistenza nel tempo. Esplica dunque i suoi effetti non solo nel momento in cui viene applicato, cosa che vale ad esempio per i fertilizzanti. Quel bio-carbone inserito nel suolo, e questa è la parte interessante per quanto riguarda l’impatto ambientale, è a tutti gli effetti una tecnologia carbon negative.

In che senso il biochar è definibile carbon negative?

Per capirlo, è necessario approfondire i cicli biologici della terra. Il ciclo del carbonio, in particolare. Funziona così, in breve: abbiamo la terra e l’energia solare, le piante la catturano e la stoccano nella loro biomassa sottoforma di carbonio.

Lucia Brusegan

Quindi un albero, nel momento in cui cresce, fa esattamente questo: immagazzina l’energia solare, la trattiene nel tronco, nelle foglie, nei rami e nelle radici, e il carbonio che viene così stoccato rimane lì fintanto che l’albero non si decompone o non viene bruciato. Poi quell’energia ritorna nel ciclo, sottoforma di anidride carbonica. Ora, se noi prendiamo quell’albero, quella biomassa che ha immagazzinato carbonio, e invece di lasciare che si decomponga generando anidride carbonica nell’atmosfera, la pirolizziamo, in qualche maniera rallentiamo il ciclo del carbonio.

Quel carbonio che l’albero ha immagazzinato per noi, facendo un rilevantissimo servizio ecosistemico all’umanità, rimane all’interno di quel materiale, il biochar. E se noi depositiamo a terra quella sostanza, impediamo al carbonio di generare CO2 e di ritornare in atmosfera. Ecco perché è una tecnologia carbon negative. Non è solo neutral, fa molto di più: sequestra il carbonio dall’atmosfera per centinaia se non migliaia di anni, oltre che aumentare la produttività dei suoli. Questo è il valore del biochar.

Qual è l’importanza del biochar ad oggi?

Stefano Giovannelli

Dal 2018 l’IPCC l’ha riconosciuto tra le tecnologie carbon negative. Di strategie ce ne sono diverse. Una è quella di piantare gli alberi e ovviamente è importante per lo stoccaggio di carbonio, ma è fondamentale anche utilizzare tutte le tecnologie a disposizione, perché, se anche noi azzerassimo in questo momento, mentre stiamo parlando, tutte le emissioni di CO2 in maniera istantanea, – è una cosa impossibile ma immaginiamo che non lo sia – fermeremmo l’immissione in atmosfera.

Purtroppo, tutto quello che noi abbiamo immesso nel corso del tempo è già lì. Esplica ed esplicherà i suoi effetti nel corso di centinaia di anni. Quindi già sappiamo che quella nostra azione di riduzione o prevenzione non sarebbe sufficiente a impedire i cambiamenti climatici con tutti i loro effetti negativi. È necessario che l’umanità riduca le proprie emissioni, ma al contempo riesca a rimuovere tutte quelle necessarie a mantenere la soglia del 1,5°C che è stata stabilita con gli Accordi di Parigi. Si stima che sia necessario passare da circa 2 gigatonnellate di anidride carbonica rimossa all’anno a circa 10 gigatonnellate entro il 2050. Ecco l’urgenza di dotarsi sempre di più di queste tecnologie carbon negative, perché sono quelle che ci consentono di agire anche sull’altro fronte: quello della rimozione.

Benissimo piantare gli alberi, è una cosa che va fatta, ma non può essere considerata sufficiente, tanto più che gli alberi portano con sé un margine di rischio concreto, pensiamo ai grandi incendi o alle tempeste. È successo per esempio in Veneto che la tempesta Vaia, nel 2018, tirasse giù intereforeste. Questo ci fa comprendere come non possiamo fare affidamento unico e totale su questo metodo.

Che cos’è l’Internationa Biochar Initiative (IBI)?

Intorno al biochar è nata una comunità a livello globale, molto vivace e attiva. Quando è apparsa c’erano pochi pionieri che si occupavano di biochar, mentre adesso sta diventando mainstream, comincia a essere conosciuto. Si inizia a parlare di biochar anche nei documenti di policy. In Europa è appena stato raggiunto un accordo molto importante tra la Commissione, il Parlamento e il Consiglio europeo sul Carbon Removal Certification Framework, certificato di riferimento per la generazione dei crediti carbonio da rimozione (spiegheremo meglio dopo cosa sono i crediti carbonio), e il biochar è previsto tra le tecnologie ammesse.

La comunità di IBI è nata nel 2006, ed è globale. Interloquisce con le altre piattaforme del mondo e lavora insieme con le varie associazioni regionali e nazionali in coordinamento. Sosteniamo il lancio di piattaforme sul biochar nei vari continenti, ragioniamo a livello globale e sviluppiamo attività di sostegno all’industria, formazione, educazione, comunicazione, networking e ricerca. Siamo presenti alla COP (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) come osservatore e lavoriamo con fondazioni a livello globale che si occupano di cambiamenti climatici, ambiente, agricoltura e suolo.

Tutte le organizzazioni incentrate sul biochar sono nate soprattutto su impulso del mondo accademico e della ricerca, che spingeva per capire – c’era un grosso interesse, ora ci è chiaro – come funzionava questo materiale. In un secondo momento si è sviluppata attorno anche un’industria, che troviamo principalmente a livello globale, soprattutto in America e in Australia. Anche in Cina. In Europa esiste una importante industria biochar nei paesi nordici (Finlandia, Norvegia e Svezia) e nei territori di area germanica (quindi Germania,

Austria e anche in Svizzera), che sono rappresentate dall’European Biochar Industry Consortium. In Inghilterra esiste un centro di ricerca all’Università di Edimburgo molto importante. In Italia, d’altro canto, esiste da molto tempo l’Associazione italiana del biochar (Ichar), nata con un importante contributo scientifico di ricercatori dell’istituto di bio- meteorologia del Cnr – consiglio nazionale delle ricerche – che ha sede a Firenze. Ci sono diversi altri centri di ricerca, ricordo il Politecnico di Torino e l’Università di Bologna che sono molto attive. Purtroppo, in Italia non esiste ancora una vera industria del biochar per diverse ragioni. C’è un grosso sforzo, prima di tutto, per far conoscere la tecnologia.

So che avete dei progetti pilota in Africa, mi potreste raccontare un po’ a riguardo?

Una delle comunità in Burundi che hanno iniziato a utilizzare i fornelli pirolitici

Tutto è nato qualche anno fa: abbiamo iniziato con un progetto pilota per studiare la tecnologia in Africa occidentale nel 2008, che poi si è via via esteso ad altri paesi africani ed ha attratto l’interesse della Banca Mondiale che ci ha invitati a presentare la nostra esperienza a Washington. Con noi c’era il prof. Johannes Lehmann, importante ricercatoreattivo alla Cornell University negli USA, tra i primi accademici a lanciare gli studi sul biochar, trasformandolo da curiosità a materia di ricerca, ma anche eventualmente in opportunità di business. Grazie a questo incontro la Banca Mondiale Ci ha chiesto di realizzare un’esperienza pilota nel paese del Burundi.

Un fornello pirolitico è alla base del progetto: offre la possibilità di fare la pirolisi a livello domestico, permettendo ad esempio alle famiglie di utilizzare i loro scarti di biomasse per cucinare e generare biochar che possono poi utilizzare come, appunto, ammendante per i suoli, migliorando così la loro produttività agricola. Non solo, c’è un altro fattore collegato all’utilizzo del fornello pirolitico, ovvero la cattura e riduzione dei fumi da combustione. Questa è una delle cause maggiori di malattia e mortalità infantile, con patologie polmonari, respiratorie.

Le donne africane, infatti, sono abituate in genere a portare i bambini sulle spalle mentre svolgono i propri lavori. Quando si chinano sul fuoco, tuttavia, alimentano involontariamente l’avvelenamento del bambino. In pratica, quindi, l’utilizzo di questi fornelli avrebbe anche questo beneficio, che non è monetizzabile all’interno del progetto, ma che invece è molto importante per lo sviluppo e la salute di alcune comunità.

Chiaro, cosa invece è possibile monetizzare attraverso l’uso del biochar?

Due cose: il miglioramento della produttività agricola e la riduzione di emissioni di CO2. Questo primo progetto pilota in Burundi ha coinvolto la produzione in loco di centinaia di fornelli, che permette, data la carpenteria metallica abbastanza semplice che richiedono, di avviare una piccola imprenditoria locale. È interessante come caratteristica di cooperazione del progetto.

Credo che Lucia Brusegan abbia recentemente parlato con il governo del Congo, un enorme Paese. In quel caso il progetto della Banca Mondiale di adesso, che nasce anche a seguito dei risultati positivi del progetto pilota in Burundi, parla di 300.000 fornelli da installare nel giro dei prossimi 3-4 anni.

Questo fornello è stato infatti progettato con l’idea di essere una soluzione molto semplice da introdurre nelle comunità rurali dei paesi poveri in Africa. Sono stati fatti dei test nell’Africa occidentale, in particolare in Ghana, in Togo e in Sierra Leone, grazie al supporto dell’Unione Europea. Poi abbiamo cominciato a espandere l’area di interesse in Etiopia e in Zimbabwe. Con questa azione abbiamo catturato l’attenzione della Banca Mondiale. Chiaramente è stato complesso all’inizio. Immagina, banalmente, se arrivasse un estraneo nella tua casa e ti dicesse che finora hai sbagliato e d’ora in poi dovrai usare un altro fornello. Nasce una sorta di diffidenza, non è facile convincere.

Quindi, abbiamo elaborato una strategia di introduzione della tecnologia basata su dimostrazioni insieme con le comunità e i contadini a partire dal biochar, coinvolgendo degli agronomi. Abbiamo realizzato attività dimostrative in zone dove i contadini hanno coltivato le loro piantagioni normalmente, altre dove hanno applicato il biochar e altre ancora con il biochar e il fertilizzante insieme.

Con questa modalità loro stessi hanno potuto sperimentare e osservare che l’applicazione del biochar faceva la differenza. Il risultato è stato positivo: contadini molto poveri, che non riuscivano a sfamare la famiglia e loro stessi con regolarità quotidiana, si sono ritrovati ad avere cibo in più che potevano anche vendere. C’è stato un vero e proprio passaggio da un’economia di sussistenza a un’economia di mercato, se ne sono resi conto e hanno adottato il fornello. Da lì si è generato un passaparola e una richiesta crescente.

È un aspetto di comunione e di partecipazione della collettività interessante. Non è stato un qualcosa di imposto dall’alto ma ha trovato una partecipazione diffusa. Le comunità si sentivano coinvolte, è stato per me molto particolare vederlo in prima persona e mi ha molto cambiato lo sguardo, motivandomi a continuare nel mio impegno per l’Africa.

Ed è proseguito, mi sembra di capire…

Assolutamente. Racconto un’esperienza. Quando a maggio del 2021 sono potuta ritornare in Burundi, dopo la parentesi del Covid-19, ho viaggiato in condizioni incredibili. Sono dovuta andare a Milano a prendere l’aereo, l’aeroporto della Malpensa era vuoto. È stato a dir poco allucinante:anche se ero vaccinata ho dovuto fare numerosi test per entrare nel paese, e una volta atterrata mi spettava la quarantena.

Insomma, è stato molto complicato riuscire ad arrivare, ma ci tenevo ad andare perché stavamo facendo partire delle attività in campo. Ero molto curiosa, dovevamo fare una missione proprio per identificare altre nuove comunità dove introdurre il biochar.

Siccome la nostra zona di lavoro si andava spostando e ampliando rispetto alla zona del primo progetto, io ho chiesto all’ingegnere locale con cui lavoravamo di condurmi nelle comunità pioniere per vedere cosa stesse succedendo. Quindi, un sabato abbiamo preso auto e autista e siamo partiti. In quel viaggio ho realizzato quanto il Burundi fosse un paese molto piccolo e povero. Straordinario per tante cose, ma anche complicato, anche se adesso sta si sta lentamente sviluppando.

Tornando al nostro autista, ci ha guidato sulle montagne, fuori dal lago Tanganica, intorno al quale c’è una sorta di altopiano a 800 metri sul livello del mare. Poi ci si allontana dalla città e si va in montagna. Abbiamo raggiunto la comunità, incontrato il responsabile della cooperativa locale con la nuova Presidente, una donna con otto figli, contadina. La loro lingua è il kirundi, con me per fortuna c’era Pierre, un ingegnere burundese che vive ora in Italia e che lavora con noi. Però avevo il dubbio che in qualche maniera traducesse in maniera un po’ edulcorata. Loro mi stavano confermando che, anche se io non ero lì, avevano continuato a portare avanti il progetto.

Allora, dopo la nostra conversazione, ho chiesto se per favore mi potevano accompagnare nei campi dove avevano applicato il biochar, per rendermi conto sulla veridicità delle loro affermazioni. Quindi abbiamo cominciato a camminare, siamo entrati nella foresta, sentieri di montagna in terra battuta e qualche abitazione. Ero l’unica persona straniera e identificabile, perciò, immagino, le persone ad un certo momento hanno cominciato ad associare il mio volto con il biochar e con il lavoro che era stato fatto due anni prima dagli agronomi.

Donne e bambini sono usciti dalle loro case. Mi battevano le mani e mi incitavano dicendo: «Biochar! Biochar!». Per me questa è stata una cosa emozionante e illuminante. Quando sono arrivata sul campo ho raccolto la terra con le mani e ho visto che c’era effettivamente il biochar, che non è una sorta di cenere ma ha una struttura ben riconoscibile. Quindi ho capito che loro, in tutto il tempo in cui noi non eravamo più lì, hanno continuano a usare la stufa e ad applicare il biochar sul terreno e le colture.

Mi ha fatto capire che il nostro duro lavoro non era stato vano. Eravamo riusciti a fargli comprendere il valore del progetto. Ho pensato: «Funziona!». Da lì in poi siamo partiti. Abbiamo chiesto l’aiuto attivo di questi contadini nel diffondere questa tecnologia attraverso la loro esperienza concreta. Chiamiamolo un passaparola che sta portando alla diffusione del biochar in Burundi. C’è ancora moltissimo da fare, però sono molto felice dei progressi di cui sono testimone.

E per quanto riguarda la questione delle compensazioni di CO2, qual è il ruolo del biochar?

Uno dei benefici possibili sarebbe la generazione di crediti che poi possono essere venduti e quindi portare un contributo alle economie di queste comunità locali. Naturalmente la misurazione delle riduzioni per singola stufa è abbastanza complessa, occorre un sistema di monitoraggio. Ci sarebbe un algoritmo che considera il numero delle famiglie, il numero delle ore.

Il punto di svolta nell’ambito delle compensazioni di CO2, sul quale stiamo lavorando, è quello di installare proprio un impianto di generazione di biochar e di energia utilizzando massicce quantità di residui. Per esempio, creare impianti all’interno di una piantagione o di una segheria, in modo che gli impianti pirolitici possano bruciare in continuità, nell’arco di tutto l’anno. In questo modo le misurazioni sarebbero più precise.

Il biochar verrebbe fornito come fertilizzante e, in compenso, si potrebbero vendere i crediti di rimozione diCO2 dall’atmosfera generati dall’applicazione del biochar nel suolo. È un passaggio industriale dell’operazione, in questo momento stiamo cercando di localizzare dei partner in alcuni paesi. Ad esempio il Mozambico, in cui ad esempio c’è l’anacardo che è molto diffuso e i cui residui sarebbero ottimi per la produzione di biochar. Ancora in Burundi e in Kenya.

Cosa si intende con vendita di crediti, compensazioni di CO2?

Le corporation che generano CO2 difficilmente riescono ad oggi a diventare carbon neutral. Allora comprerebbero questi crediti da industrie che gestiscono tecnologie carbon negative. I crediti rappresenterebbero una determinata quantità di CO2 rimossa dall’atmosfera. Sostanzialmente, pagano il prezzo delle loro emissioni a chi, come noi, le va ad assorbire e a ridurre.

Noi, d’altro canto, venderemmo i nostri meriti a chi continua ad inquinare. È così che si regolerebbe la situazione. Nasce un mercato volontario. In parole ancora più concrete: una tonnellata di CO2 rimossa dall’atmosfera può essere venduta a chi, invece, ne ha appena emessa altrettanta. Ciò non significa che le emissioni dei grandi inquinanti non vadano ugualmente ridotte. È chiaro che un aereo, tuttavia, continuerà a produrre una notevole quantità di CO2 nel suo funzionamento, sarebbe difficile azzerarla.

Si tratta quindi, da un lato, di sciacquare i panni sporchi. Dall’altro però contribuisce al processo complessivo di comprensione che bisogna pagare per le esternalità negative dovute all’inquinamento. Rappresenta, inoltre, un’importante fonte addizionale di credito in un contesto di scarsità di sviluppo di questetecnologie e dei relativi finanziamenti.

Ci sono vari modi di produrre biochar?

Anche questo è un lato affascinante. Lo si può produrre a scale diverse, anche con tecnologie molto semplici.

Eppure, allo stesso tempo, la produzione può spostarsi su impianti che sono delle “Ferrari”, insomma, delle avanguardie tech. In Svizzera, in Austria e in Germania hanno già iniziato realizzare impianti in scala enorme, generatori di energia e grandi gassificatori. Quindi abbiamo diverse scale di operazioni, dalla piccola stufa al grande impianto, passando per tutti i livelli intermedi.

Tieni conto che in questi paesi di cui ti ho accennato prima ci sono appezzamenti di meno di un ettaro di terra. Immagina, d’altro canto, le piantagioni di caffè che producono numerosi residui, dalla polpa alla bacca esterna e così via. Ancora i residui delle grandi piantagioni di thè, i gusci delle noci di palma, la lolla del riso. Si tratta di scarti che potrebbero produrre molto più biochar e generare molti più crediti. Entrambe le dimensioni sono da sviluppare, da quella familiare per le ragioni sovraesposte, a quella industriale. Le due cose sono legate e sono entrambe molto utili.

In un paese come l’Italia in che modo può essere utilizzato il fornello pirolitico?
Non penso possa essere adatto quello di piccole dimensioni, perché è un miglioramento rispetto alle condizioni di cucina delle famiglie nei paesi poveri, soprattutto nelle comunità rurali. Loro spesso vanno in foresta, un altro elemento interessante, si procurano la legna e cucinano nei “fuochi aperti”. È incredibile ma una delle cause primarie della deforestazione non sono solo le grosse operazioni commerciali fatte dalle multinazionali, ma questi comportamenti che vengono dalle famiglie, perché sono assolutamente diffusi…

Più del 95% delle case della Repubblica democratica del Congo cucina utilizzando biomassa di provenienza forestale. Sembra incredibile. Quindi, introdurre un sistema pirolitico è un’operazione enorme per la salvaguardia e la protezione delle foreste primarie che ancora ci sono nel nostro mondo.

In Italia, invece, è possibile immaginare impianti industriali, non necessariamente ciclopici, che sarebbero utilissimi ad esempio in occasione delle potature degli ulivi e di tutte le altre numerose piantagioni nella nostra penisola. Questo settore in Italia non è ancora sviluppato ma ci sono degli esempi pilota positivi.

Mi potreste parlare di un fattore che ritenete importante per risolvere la crisi ambientale?

C’è tanto bisogno di pensare al futuro, dal mio piccolo osservatorio vedo questo. E soprattutto è importante per i giovani. Ho sviluppato nel corso del tempo proprio questo grande interesse a far crescere i ragazzi e a esporli a queste tecnologie per l’ambiente, perché secondo me la mia generazione di adulti è ormai persa. Nel senso che quello che potevamo costruire l’abbiamo costruito, abbiamo cercato di fare del nostro meglio,però proprio l’attenzione, la capacità e la plasticità della mente, degli interessi di una persona giovane, non sono quelli che possiamo avere noi. Quello che noi possiamo portare è forse l’esperienza, un po’ di capacità di leggere le situazioni e di velocizzare certi processi. Abbiamo creato come IBI una Biochar Academy.

Hanno partecipato in 40 da tutto il mondo, e vedo che i ragazzi giovani hanno una capacità di declinare le conoscenze in maniera del tutto inaspettata, anche perché dispongono di strumenti come l’intelligenza artificiale o la blockchain, cose di cui io non ho particolare padronanza. Queste osservazioni che ho raccolto sono dal mio punto di vista estremamente positive. Ecco, credo perciò che sia una buona cosa coltivare l’alleanza tra generazioni.

Uno strumento utile per la formazione?

Ho tradotto insieme a un collega un libro scritto da due autori americani: Kathleen Draper, che è stata la Presidente dell’IBI prima di me, e Albert Bates. Lo hanno scritto qualche anno fa e abbiamo deciso di tradurlo in lingua italiana per metterlo a disposizione delle persone, soprattutto dei giovani, credo molto nel loro potenziale.

È un libro interessante perché parla del ciclo del carbonio e di come il carbonio da, chiamiamolo, “nemico”, può diventare un alleato, se si riescono a cogliere tutte le sue potenzialità. Tra l’altro, si definisce “atomo di Dio”, perché nel racconto scientifico di come è nata la vita sulla terra c’è un passaggio legato appunto al carbonio, coinvolto in un processo che aveva una probabilità di accadere quasi infinitesimale, e da quello è dipesa la vita sulla terra.

Un’affascinante chiave di lettura: è vero, abbiamo l’anidride carbonica che deriva dal carbonio e abbiamo questo grosso problema nella gestione dei combustibili fossili, però dentro il problema c’è anche la soluzione. Un libro ricchissimo di esempi che suggeriscono un cambio di prospettiva e di sguardo rispetto a una cosa che noi abbiamo gestito sempre in un certo modo, sbagliando anche in buona fede. Invece gli autori ci mostrano che adesso abbiamo tutte le conoscenze e le capacità per poter gestire la questione CO2 in un altro modo.

Un ragionamento globale, secondo me molto in linea anche con la Laudato si’ di Papa Francesco. Questo dimostra che quando si ragiona su dati, guardando il lato più concreto delle cose, si trovano degli spazi di incontro e dialogo che vanno ben oltre quello che ci si potrebbe immaginare.

The promising Burundian way to biochar è un piccolo documentario realizzato per il progetto IBI in Burundi. Spiega esattamente che tipo di lavoro è stato portato a termine.

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