Bettazzi, padre della radicalità evangelica
Domenica 15 luglio 2023 Luigi Bettazzi ha terminato i suoi giorni terreni, sazio di anni. Ne doveva compiere 100, con la grazia di restare lucido e attivo fino alla fine. Aveva in agenda di andare a Gorizia a fine dell’anno per la marcia della pace proposta ogni anno dalla Chiesa italiana a partire dal 1968. Un evento che di quegli anni ha mantenuto il senso evangelico di un segno di contraddizione della società dei consumi e dello “scarto”.
Con Bettazzi scompare l’ultimo vescovo italiano presente alle assise del Concilio Vaticano II. Testimone diretto di un tempo di cambiamento straordinario che ha investito la “Cattolica” e, quindi, il mondo intero.
Bettazzi si è formato nella stagione feconda e d’avanguardia della chiesa bolognese, segnata dalla presenza del cardinale Giacomo Lercaro e di Giuseppe Dossetti, ed è stato identificato con quei vescovi che, durante il Concilio, fecero il cosiddetto patto delle Catacombe, e cioè la scelta prioritaria dei poveri che è quella del Vangelo.
Dal 1966 al 1999 è stato vescovo ad Ivrea, territorio segnato dall’idea interrotta di impresa di Olivetti e quindi dalle contraddizioni del capitalismo italiano che non ha seguito quell’esempio di economia.
Di lui si ricorda l’effetto che ebbe la sua lettera aperta scritta al segretario del Pci, Enrico Berlinguer, che gli rispose dopo un mese dichiarando la natura non ateistica del suo partito che raccoglieva un grande consenso popolare. Dinamiche che non si possono capire senza avvertire l’urgenza della Chiesa, avvertita già nel dopoguerra, a partire dalla Francia “terra di missione”, di riaprire il dialogo con quelle masse allontanatesi progressivamente dal cristianesimo per motivi politici.
Radicale la sua scelta di pace contraria ad ogni guerra. In ciò ha seguito l’esempio di Lercaro che, contro ogni cautela, arrivò a condannare i bombardamenti Usa in Vietnam. Da vescovo presidente di Pax Christi, Bettazzi è stato sempre coerente alla sua scelta, toccando temi proibiti come la fedeltà alla Nato, pur essendo consapevole di rappresentare una minoranza all’interno dell’episcopato. Ora al momento della sua partenza il presidente della Cei invita tutti a riconoscerlo come “padre” ricordando le sue parole che costituiscono un programma di vita personale e comunitario: «Dovremmo arrivare a farci tutti la mentalità di pace, mentre abbiamo tutti la mentalità della violenza. Dovremmo arrivare a far crescere anche nel popolo cristiano, direi prima di tutti in quello, la mentalità vera della pace contro ogni forma di violenza, come ha fatto Gesù».
Antonio Coccoluto ha avuto modo nel 2019 di riportare sulla rivista Nuova Umanità una lunga intervista fatta a Luigi Bettazzi. Nella risposta data a proposito dell’attualità del “patto delle catacombe” si può cogliere il tratto decisivo che ha segnato una generazione di cristiani attratti dalla scelta originale del Vangelo.
Rimandando all’integralità dell’intervista su Nuova Umanità, riportiamo, quindi, la risposta sulla scelta preferenziale dei poveri.
Il 16 novembre 1965, una quarantina di persone, tra cui lei, ha firmato a Roma il famoso “Patto delle Catacombe”. Durante il Sinodo sull’Amazzonia del 2019, un numero significativo di vescovi ha voluto ripetere quel gesto. Cosa ha significato, in pratica, quel patto per lei? Che conseguenze ha avuto nella sua vita e nel suo ministero in termini di collegialità, ma anche di quella che appunto anche lei ha chiamato “Chiesa dei poveri”?
Paolo VI temeva che una discussione ampia sulla Chiesa dei poveri finisse in politica, in quel momento di “guerra fredda” tra il ricco Occidente e la Russia, auto-paladina dei poveri del mondo. Perciò il movimento per la “Chiesa dei poveri”, il quale si radunava nel collegio belga, nel pomeriggio del 16 novembre 1965 invitò i vescovi alle catacombe di Domitilla, sulla via Salaria, per un incontro.
La notizia fu trasmessa tra amici (e nei pomeriggi del Concilio vi erano incontri vari, ad esempio di Commissioni conciliari e di Conferenze episcopali nazionali), cosicché ci si ritrovò in quarantadue, partecipando alla messa di un vescovo belga (Himmer di Tournai), il quale alla fine ci presentò un documento per impegni personali (ad esempio, vivere con più semplicità, anche nell’abitazione e riguardo ai mezzi di trasporto, stare vicino ai poveri, ai lavoratori manuali, agli emarginati, fraternizzare con i propri preti, servirsi di laici fidati per le attività finanziarie), documento che noi firmammo e ci impegnammo a far firmare da vescovi amici.
Il cardinal Lercaro venne incaricato di presentare a papa Paolo VI il documento (poi chiamato “Patto delle Catacombe”), con oltre cinquecento firme (e forse sarebbero state di più se non si fosse stati pressati dall’urgenza). Per il ricordo del Patto delle Catacombe, verso la fine del Sinodo per l’Amazzonia, alcuni vescovi (ma in realtà furono oltre cento!) han voluto tornare alle Catacombe di Domitilla per rinnovare un patto, che questa volta era riferito al loro Sinodo, con impegni per l’ecologia e per la promozione, anche ecclesiastica, di quelle popolazioni indigene.
Il Concilio e questo patto hanno influito sulla mia vita di pastore, anche perché avevamo formato un gruppo di vescovi (alla fine eravamo venti, di quattro continenti), coinvolti nella spiritualità di Jesus Caritas (la spiritualità di fratel Carlo de Foucauld e dei piccoli fratelli, tanto da esserci denominati “la fraternità dei Piccoli Monsignori”). Nel Concilio ci trovavamo ogni settimana per pregare insieme e consultarci sullo sviluppo del Concilio, dopo ci siamo scritti almeno una volta l’anno e abbiamo approfittato di ogni possibilità per incontrarci, almeno singolarmente, nei vari continenti.
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