Beslan, 20 anni ormai

Una strage, un infanticidio, che non ha mai visto giustizia. Un attacco terroristico che vede la responsabilità dei servizi segreti. I fatti che danno voce alle vittime sono raccontati nel libro di Erika Fatland "La città deglli angeli"
Commemorazione al monumento della scuola di Beslan, 3 settembre 2024. Ansa EPA/SERGEI ILNITSKY

Sono ormai passati 4 lustri da una delle tragedie più sconvolgenti della guerra nel Caucaso settentrionale: più di 300 bambini uccisi in un attacco terroristico nella Repubblica di Ossezia del nord, parte della Federazione russa. Vent’anni in cui non è ancora emersa la verità, o perlomeno una visione veritiera dei fatti accaduti, così come è successo per altri misteri nelle regioni di incrocio di popolazioni, etnie, culture, religioni: penso all’assassinio del premier libanese Rafik Hariri nel 2005, alla scomparsa del Comandante Massoud in Afghanistan nel 2001, o ancora alla morte dell’ex presidente egiziano Morsi nel 2019. Tutti episodi che hanno conservato il loro alone di mistero, come si conviene quando s’intravvede l’opera dei servizi segreti di diversi Paesi. Ma la tragedia di Beslan ha qualcosa di terribile e inconsueto, perché si è trattato di un infanticidio in piena regola.

I fatti: il primo settembre 2004, a Beslan, centro agricolo e industriale noto per la produzione di vodka, nella Repubblica dell’Ossezia del nord, a due passi dall’altra repubblica cis-caucasica dell’Inguscezia, un commando di alcune decine di terroristi, soprattutto ceceni e ingusci, ma con elementi ossetini e del Daghestan, commando probabilmente legato al leader indipendentista ceceno Samir Basaev – ma non vi è certezza al riguardo –, ha assaltato una scuola elementare e media, la scuola identificata come “N° 1”. Più di mille e cento persone – secondo la cellula di crisi erano solo 300 – sono state dapprima racchiuse nella palestra del complesso scolastico, e più tardi nella mensa. Lo scopo del commando terroristico era quello di attirare l’attenzione sulla questione dell’indipendenza cecena dalla Russia e sul governo dittatoriale attuato su volere di Putin stesso.

Per tre giorni i prigionieri hanno vissuto un incubo inenarrabile, che è stato simbolizzato nella mancanza d’acqua, quando la temperatura era stabilmente sui 40 gradi all’ombra. Al secondo giorno, si cercò di intavolare delle trattative, invano, mentre un numero imprecisato di adulti e bambini riuscì a fuggire. Il terzo giorno, dopo che era stato concesso dai terroristi l’entrata nella scuola di 4 medici (due di essi poi morti per scambi di artiglieria di provenienza discussa), una forte esplosione ha scatenato un incendio che ha distrutto la palestra della scuola, mentre intervenivano addirittura dei mezzi blindati per mettere fine «allo scandalo di quella azione terroristica», come disse lo stesso presidente russo.

Il problema sta nel non lineare comportamento delle due task force intervenute sul luogo dopo l’assalto, in particolare per aver rifiutato ogni trattativa con i terroristi e per le responsabilità delle esplosioni del terzo giorno, quelle che hanno provocato il maggior numero di vittime. Sostanzialmente, le posizioni al riguardo sono tre: quella di coloro che ritengono che la responsabilità dei morti stia tutta dalla parte dei terroristi (è la posizione ufficiale di Mosca); quella di chi accusa di ogni malefatta l’FSB (ex KGB) e del comando federale delle operazioni di sicurezza, risalendo fino a certe presunte responsabilità dirette del presidente (è la posizione delle associazioni “Le madri di Beslan” e “La voce di Beslan”); infine, quella di coloro che più equilibratamente cercano di addossare le responsabilità alle due parti (i colpi della terza giornata provenivano per loro dall’esterno della scuola), ma anche alla quasi comica – o piuttosto tragica – mancanza di ogni coordinamento nelle azioni da parte dei comandanti delle due cellule di crisi, quella federale e quella ossetina.

Erika Fatland è un’antropologa e scrittrice norvegese, autrice di alcuni libri di successo sull’Asia Centrale, tra cui il best seller intitolato Sovietistan (Marsilio 2024). Ha di recente pubblicato un libro, racconto e inchiesta nello stesso tempo, sulla tragedia di Beslan, dal titolo La città degli angeli, che è rapidamente scalato le classifiche di vendita. Sostanzialmente, il libro è il risultato di un soggiorno di alcuni mesi a Beslan, come operatrice della Croce Rossa, nell’autunno 2007, e di un secondo soggiorno indipendente del 2010. La prima edizione del libro è del 2011, oggi uscito sotto nuova veste e con aggiornamenti cospicui. Pagine indubbiamente commoventi e oneste, che cercano di dar voce alle vittime e di fare chiarezza sulle responsabilità della tragedia. Ovviamente, la Flatland non arriva a conclusioni certe, salvo quella di convincere i lettori che bisogna superare una visione in bianco/nero, per passare a un’infinita serie di grigi, di responsabilità condivise dai diversi attori sulla scena. Ma di tutto il puzzle di Beslan, l’autrice ha saputo tracciare l’itinerario delle vittime, dei piccoli e degli adulti, in un mix di ignoranza e cinismo, di disorganizzazione e di brutalità.

Nel luglio 2007 ero stato sul posto col compianto collega portoghese Eduardo Guedes. Avevamo incontrato autorità e vittime, avevamo reso omaggio alle 331 vittime (186 di bambini) nella “città degli angeli”, avevamo potuto trattenerci a lungo nelle rovine della Scuola N° 1 senza restrizioni, cosa che più tardi divenne impossibile. Rubai, lo ammetto, un foglio di quaderno ricoperto dalla scrittura di un bimbo o di una bimba, ancora macchiato di sangue. È affisso nel mio ufficio, come un memento homo: l’essere umano sa diventare peggio delle bestie. E continua a esserlo, anche oggi. Prima di Beslan c’è state la strage del Teatro Dubrovka (2003), dopo c’è stata la strage del Teatro Crocus City Hall (2024). Sempre con la presenza di servizi segreti che non hanno nascosto la loro brutalità.

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