Bergman e Antonioni
Forse non è un caso che se ne siano andati assieme, visto che tante altre cose avevano condiviso. Entrambi avevano rivoluzionato il linguaggio del cinema; entrambi avevano usato la macchina da presa, guidandola nei labirinti della coscienza, per sondare l’animo umano; entrambi avevano saputo cogliere e fissare i lineamenti più autentici della crisi che travaglia l’uomo contemporaneo. In un milieu culturale distratto dall’impegno politico e dal sociale, Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni avevano richiamato insistentemente l’attenzione del pubblico più sensibile sui problemi dell’esistenza, del senso della vita, dell’aridità dei sentimenti, dei difficili rapporti interpersonali, degli interrogativi sulla morte, dei dubbi di fronte al mistero dell’ignoto. Tutti e due lo avevano fatto in un modo narrativamente originale, che sulle prime aveva suscitato anche qualche sgomento e non poche perplessità, ma che poi, poco alla volta, aveva finito per diventare familiare e per coinvolgere sempre più numerosi epigoni influenzati da modelli che nella cultura del Novecento hanno lasciato un segno indelebile. Il cinema di Bergman ha consentito – soprattutto a noi cattolici, latini e mediterranei – di avventurarci con maggior dimestichezza nelle vicende del protestantesimo, di Kierkegaard e di Strindberg, di maestri del muto come Dreyer e Sjostrom. Il cinema di Bergman ci ha messo di fronte ai problemi della morte (Il settimo sigillo, Il posto delle fragole) e della fede (Luci d’inverno, Come in uno specchio), ma anche del dubbio (Il silenzio), della carnalità (Sussurri e grida), della difficoltà dei rapporti di coppia (Scene da un matrimonio), dell’identità (Fanny e Alexander). Leggendo la sua autobiografia, Lanterna magica del 1987, e assistendo a Con le migliori intenzio- ni (diretto da Bille August ma sceneggiato dallo stesso Bergman, il film rievoca l’incontro e l’unione fra il padre, pastore protestante, e la madre), si possono intuire i motivi del suo mondo poetico, dove i traumi dell’infanzia, reiterati rapporti di amore-odio, la crisi dei sentimenti, la difficoltà di comunicare, l’angoscia della solitudine alimentarono un perenne intrecciarsi di tenerezza e crudeltà, di fede e di dolore suscitato dall’incertezza metafisica, di speranza e disillusione. Ma sempre nel tentativo di dare un volto alle torture dell’anima. Altrettanto complesso e contraddittorio il cinema di Antonioni, che come Bergman ha filmato la condizione umana cercando nell’inquietudine e nel tormento dell’io gli indizi di una soluzione perennemente rimandata. Allo stesso modo del cineasta svedese, Antonioni ha dato una spallata al vecchio gusto tutto esteriore del romanzesco, per frantumare le impalcature della narrazione, smembrare personaggi a tutto tondo e guardare invece oltre la facciata delle apparenze, di una realtà cristallizzata, delineata a puntino in tutti i suoi dettagli. Dall’eccesso di senso, volto manieristico di un cinema narrativamente compiuto e schematico, Antonioni è passato all’altra faccia della medaglia: la mancanza di senso che caratterizza gran parte della vita contemporanea. Essa si è tradotta in un linguaggio originale, dove il racconto codificato del cinema tradizionale si è visto destrutturato in una sceneggiatura smozzicata, fatta di pause e di vuoti, a volte di dialoghi sciatti che denunciavano la noia dell’esistenza, di silenzi, di immagini che restituivano l’inespresso e l’incertezza del vivere quotidiano. Un linguaggio che ha saputo catturare l’autenticità del reale, cogliere l’apparente fissità di un tempo sciupato, inventando uno stile e che ha cambiato un modo di raccontare. Lo dimostrano film come L’avventura, La notte, L’eclisse, in cui alienazione, disamore, incomunicabilità facevano toccare con mano le teoriche del nouveau roman e dell’école du regard, secondo le quali gli oggetti e la materia spiazzano la soggettività della persona e ne fiaccano lo spirito fino a trascenderlo e a dominarlo. Un linguaggio nato da un profondo travaglio interiore e da una dolorosa osservazione della realtà, testimoniato da capolavori come Blow-up, tutto incentrato sul trionfo dell’apparenza sulla verità, come Professione: reporter, che racconta lo smarrimento derivante dalla perdita di identità, come Identificazione di una donna, che anticipa la crisi spirituale dell’autore, preludio a un progetto sulla vita di san Francesco. Anni fa si diceva che la storia del cinema doveva essere divisa in due periodi: prima e dopo Godard. Linea di demarcazione che andrebbe rivista e corretta in prima e dopo l’accoppiata Bergman- Antonioni.