Benvenuto Cellini all’Opera di Roma
Che accoppiata, il musicista Hector Berlioz e il regista Terry Gilliam. Due menti immaginifiche, due d’Annunzio della musica e del cinema, fatte per incontrarsi e in qualche modo scontrarsi. L’allestimento che Gilliam ha proposto al teatro romano è sontuoso, surreale, ricchissimo tra scene con ricordi delle incisioni di Piranesi, costumi da Belle époque, funamboli, video catastrofici da blockbuster, coriandoli gettati dall’alto sugli spettatori in platea, e un gigantesco Perseo come musa dominante i due atti dell’opera. Insomma uno spettacolo iperbarocco, multicolore, molto cinematografico, ma con tocchi seppur rari di preziosa intimità.
Parrà strano, ma Gilliam è venuto incontro alla musica di Berlioz che Roberto Abbado, da quel signore del podio che è, ha diretto con zelo e misura, cercando di amalgamare le masse del coro – che passa dal gregoriano a ritmi rossiniani o cantabili – e gli interpreti, rapiti nel vortice attoriale che non li lascia un momento fermi.
Si diceva della musica di Berlioz, anno 1838, accolta male alla prima all’Opèra parigina. Gran orchestratore, dalla tavolozza rubensiana, Hector non è propriamente autore operistico adatto al suo tempo, le forme chiuse – romanze, cabalette – gli vanno strette e sono fra i punti deboli della partitura, con melodie un po’ artificiali.
Dove Berlioz si esalta è nell’affrescare: allora l’orchestra si muove stupendamente con assolute novità timbriche – meravigliosamente colorate nei toni gravi in particolare – che vivificano la storia della vicenda amorosa di Cellini, romanticamente romanzata, innamorato di Teresa, assassino ma perdonato da papa Clemente (una sorta di cicisbeo caricaturale in Gilliam) a patto che realizzi la statua del Perseo, come gli riesce alla fine. In mezzo, il carnevale romano, bevute caravaggesche nelle taverne, amorazzi, gelosie e sfide a duello: Gilliam mette insieme, come Berlioz, di tutto, ossia la vita, come la vede lui.
E qui tuttavia parte lo scontro del regista con Berlioz, perché Gilliam che ama la Roma decadente da buon americano che conosce Fellini e forse Sorrentino, non nota forse a sufficienza la vena malinconica di Hector che l’orchestra in vari passaggi (oboe, fagotto), più che le voci, tratteggia.
A proposito di voci: John Osborne si conferma quel talento di tenore lirico che è, agilissimo, scattante, morbido e bravo attore; Marco Spotti è un papa fiero, sdegnoso, dalla grana vocale ricca di armonici; Nicola Ulivieri un Balducci scatenato; Teresa, cioè Mariangela Sicilia, ha una voce bellissima, rugiadosa e ha davanti un futuro promettente come l’Ascania di Varduhi Abrahamyan.
Orchestra e coro hanno dato il massimo e Roberto Abbado, pure, in un'opera difficile da rappresentare, musicalmente assai impegnativa: forse non la si potrebbe mai eseguire in forma di concerto perché la musica esige lo spettacolo scenografico di per sé. E spettacolo nel senso più variegato del termine è all’Opera romana di questo teatro della fantasia e dell’immaginazione. Si replica il 31 marzo e il 3 aprile.