Enti statali, meglio la gestione pubblica o privata?

Dopo il crollo del ponte Morandi si discute della nazionalizzazione del servizio di manutenzione della rete autostradale, ma conviene davvero? Un'analisi partendo da un saggio di Moshe Adler.

«La gran parte dei nostri problemi sono dovuti alle tentazioni a cui sono sottoposti i nostri funzionari quando qualche ricca corporation cerca di farsi assegnare una concessione, o quando bisogna stipulare dei contratti per lavori pubblici con operatori privati». Questo giudizio – che riguarda un tema tornato prepotentemente di attualità in questa estate italiana – è del sindaco di Detroit Hazen Pingree e risale al 1895. A quel tempo molte città americane iniziavano a diffidare del ricorso ad operatori privati e stavano passando alla gestione diretta dei servizi da parte della municipalità. Purtroppo, però, anche la gestione pubblica aveva i suoi problemi, come peraltro già aveva mostrato l’esperienza fatta settant’anni prima a New York.

Per dirne una, due funzionari responsabili del servizio di pulizia si erano appropriati di parte dei ricavi della vendita del letame di cavallo – merce di un certo valore a quei tempi – che i netturbini raccoglievano dalle strade. Inoltre – aveva osservato lo speciale comitato creato nel 1839 per indagare sulla crescita delle spese civiche – «senza dubbio si potrebbero trovare soggetti disponibili a pulire le strade per molto meno di quanto si paga oggi». Da qui la proposta di passare alla stipula di contratti con ditte private (le quali poi in genere lasciarono molto a desiderare quanto alla qualità del servizio).

Ho attinto queste informazioni da un interessante saggio di Moshe Adler (Been there, done that! The privatization of street cleaning in nineteenth century New York, New Labor Forum, Spring/Summer 1999), docente alla Columbia University, che ripercorre la storia dell’organizzazione dei servizi pubblici nelle città americane nel XIX secolo, soffermandosi in particolare sulla pulizia delle strade di New York. Il servizio passò più volte da un tipo di gestione all’altro, ogni volta a seguito di un’ondata di proteste e di affermazioni che era l’altra la giusta modalità di gestione naturalmente (dove questo avverbio sta anche ad indicare che per gli indignati di turno questa conclusione discendeva in modo del tutto evidente e generale dalla natura stessa delle cose). Peccato che dopo un po’ di anni l’onda montante dell’opinione pubblica dichiarasse che ad essere altrettanto naturalmente preferibile era l’altro modo di gestione.

Oggi il crollo del viadotto di Genova, con il suo pesante carico di vittime innocenti e di ostruzioni ai trasporti,  ha innescato un’ondata anti-concessioni, incoraggiata dalle dichiarazioni di alcuni esponenti del governo. Ma possiamo già prevedere che da qui a non molti anni qualche episodio eclatante di mala gestione pubblica scatenerà un’ondata di segno contrario, altrettanto veemente e intransigente, ancora una volta – è probabile – con l’incoraggiamento di qualche forza politica. Forse ripensare le esperienze passate, anche italiane, potrebbe aiutarci a prendere delle posizioni meno ingenuamente oscillanti e meno dannose al buon funzionamento dei nostri servizi pubblici.

Può essere che Autostrade per l’Italia abbia goduto di una concessione esageratamente favorevole (ci sono dei motivi per pensarlo); è anche possibile che – cosa diversa – non abbia adempiuto pienamente agli obblighi che quella concessione le imponeva (potrebbe aver realizzato investimenti in misura minore rispetto a quanto previsto dalla concessione); infine – cosa ancora diversa – i suoi dirigenti potrebbero anche avere delle responsabilità penali nello specifico caso del ponte Morandi. Ciascuna di queste affermazioni, però, deve essere corroborata da dati e da indagini, non da sommari processi di piazza o da dichiarazioni affrettate di questo o quel personaggio politico. Ovviamente, se si dimostreranno vere dovranno scattare le dovute conseguenze.

Ma la gestione diretta dei servizi pubblici da parte delle amministrazioni dello Stato o degli enti locali non è una panacea, come non sono state una panacea le privatizzazioni che tanto andavano di moda negli anni ‘80. Si tratta di due modalità organizzative intese ad ottenere che privati cittadini, portatori di privati interessi, operino per promuovere un obiettivo di interesse pubblico. Tutte e due hanno vari punti deboli. Ciascuno di questi si manifesta di più in certi ambiti di attività o in certi contesti storici e sociali e meno in altri, il che chiede alla politica l’arte di identificare in ciascuna circostanza una soluzione, se non ottima, almeno buona, e magari di rivederla al variare delle condizioni. Ad esempio, è ancora opportuno che Alitalia resti in mano pubblica o è effettivamente meglio venderla? E, al contrario, è stato bene aver privatizzato ENAV, l’ente per il controllo del traffico aereo? Due quesiti che non possono essere risolti con risposte ideologiche prefabbricate, ma che richiedono una valutazione accurata.

C’è comunque una cosa che può ridurre i malfunzionamenti sia dell’una che dell’altra modalità di gestione: la coltivazione individuale e collettiva del gusto di servire l’interesse pubblico, e non solo meschinamente il proprio. Qui c’è un grande e prezioso lavoro da fare per tutti: forze politiche, mondo della scuola, mass media, associazioni, movimenti di impegno civile in campo sia politico che economico.

 

 

 

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