Benedetto XVI e l’Asia

La scomparsa di Joseph Ratzinger ha improvvisamente risollevato l’interesse per il teologo e per il pontefice che è stato. Comincia ad emergere quanto qualcuno – più attento di altri piuttosto superficiali – aveva previsto: la grandezza di questo papa la si sarebbe scoperta solo in retrospettiva, nel tempo
Benedetto XVI. Udienza generale con fedeli della Cina 2011. (AP Photo/Andrew Medichini)

Durante tutta la sua vita e nell’evoluzione del suo pensiero il teologo Joseph Ratzinger diventato papa Benedetto XVI ha saputo leggere ed esprimere, come pochi hanno saputo fare, tutto il travaglio e la ricerca dell’uomo e della donna occidentali. Ratzinger è, forse, apparso più distaccato da altri mondi e culture, almeno direttamente, in particolare da quelle dell’Asia.

In effetti, la sensibilità asiatica è diversa da quella occidentale. Più che sulla ragione, essa si fonda sull’esperienza – anubhav la definiscono le religioni del sanatana dharma del subcontinente indiano – e la ricerca della verità non è mai solo ermeneutica, ma è un cammino, come lasciano intuire i termini dao ­(della tradizione cinese) e marga (di quella indiana).

Ratzinger conosceva bene queste dimensioni ma, di fatto, non sembra essersi misurato direttamente con esse. Piuttosto, si era reso conto che, alla luce di un relativismo progressivamente pervasivo in occidente, alcune caratteristiche delle tradizioni orientali stavano entrando in varie forme fra le pieghe della vita quotidiana dell’uomo e della donna dell’Europa.

Aveva intuito, fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, che certe pratiche meditative o di preghiera provenienti dal mondo buddhista o indù, se, da un lato, potevano ovviare al progressivo deficit di sacro sempre più evidente in occidente, dall’altro, avrebbero finito per offuscare ciò che ideologie o filoni culturali stavano già cancellando. A costo di essere impopolare, ha sempre insistito su questo pericolo.

Allo stesso tempo, leggendo a ritroso alcuni suoi interventi per difendere l’identità cristiana – soprattutto a livello cristologico –, ci si rende conto di come essi non intendessero impedire un sano e costruttivo dialogo con altri filoni di pensiero e con culture e teologie dell’Asia. Volevano essere, piuttosto, un monito perché, in nome di un dialogo con persone di altre fedi e culture, non si rischiasse di confermare il relativismo sempre più forte e rampante in occidente.

D’altra parte, oltre a questo dibattitto sottile e personale, spesso non compreso da altri, Ratzinger, sia come teologo che come papa deve essere ricordato per due elementi importanti nel suo rapporto con il mondo asiatico in quanto tale. Il primo è una fine annotazione che emerge da un suo discorso tenuto a Hong Kong di fronte ai vescovi della Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche (Fabc): era il 1993 e l’allora cardinale Ratzinger, ben conscio dello sforzo post-conciliare delle Chiese di quel continente di inculturare l’annuncio cristiano in contesti ben diversi dal modello greco-ebraico, fece un’affermazione per quei tempi assolutamente innovativa: «Non dovremmo più parlare di “inculturazione”, ma di incontro di culture o di “interculturalità”», affermò, convinto che l’interculturalità «appartiene alla forma originaria del cristianesimo».

Essa implica sia un atteggiamento positivo verso le altre culture e religioni sia un’opera di purificazione e un “taglio coraggioso”, indispensabile ad ogni cultura che voglia restare aperta e viva.

La fede cristiana non si identifica con nessuna cultura determinata ed è intrinsecamente legata ad un certo pluralismo. Se il dialogo tra le culture e le religioni era stato uno dei cardini del pontificato di Giovanni Paolo II, non ha caratterizzato di meno quello di Benedetto XVI. Egli si era aperto su queste tematiche ben prima della sua elezione. Intuiva che esse erano fondamentali sia per il cristianesimo in quanto tale che per la cultura europea, come pure per quelle dell’Asia dove, con qualche eccezione, il cristianesimo è percepito come realtà aliena.

Un secondo contributo fondamentale nel rapporto fra Benedetto XVI e l’Asia è stata la lettera che nel 2007 volle scrivere ai cattolici cinesi, il 27 maggio 2007, Pentecoste, una data vicina a quel 24 maggio dedicato alla Madonna venerata nel santuario di Sheshan, a Shanghai.

La lettera comprende due parti: nella prima, si parla della situazione della Chiesa e vengono ricordati alcuni aspetti teologici; nella seconda, vengono proposti alcuni importanti orientamenti di vita pastorale.

Papa Benedetto notava come la Cina di quegli anni mostrasse «un crescente interesse per la dimensione spirituale e trascendente della persona umana, con il conseguente interesse per la religione, particolarmente per il cristianesimo».

Allo stesso tempo, non dimenticava «la sofferta testimonianza di fedeltà, offerta dalla comunità cattolica cinese in circostanze veramente difficili». Si augurava di poter instaurare presto vie concrete di comunicazione e di collaborazione tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese.

«Lo sappia la Cina: la Chiesa cattolica ha il vivo proposito di offrire, ancora una volta, un umile e disinteressato servizio, in ciò che le compete, per il bene dei cattolici cinesi e per quello di tutti gli abitanti del Paese».

Chiarendo che la Chiesa cattolica ha la missione «non di cambiare la struttura o l’amministrazione dello Stato, bensì di annunziare agli uomini il Cristo, Salvatore del mondo», il Papa sottolineava come fosse «indispensabile, per l’unità della Chiesa nelle singole nazioni, che ogni vescovo sia in comunione con gli altri vescovi, e che tutti siano in comunione visibile e concreta con il papa».

A conferma di quanto fosse importante quel documento anche in vista dell’accordo firmato negli ultimi anni fra la Santa Sede e il governo di Pechino, il sito ufficiale promosso dall’Associazione patriottica ha pubblicato in questi giorni la notizia della sua morte con queste parole: «Affidiamo Benedetto XVI alla misericordia di Dio e chiediamo a Lui di garantirgli l’eterno riposo in paradiso».

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