Benedetto Calati: uomo di Dio, amico degli uomini

Monaco camaldolese, una delle figure più interessanti del Novecento nel dialogo tra fede e cultura, nell’ecumenismo, nel rinnovamento della Chiesa postconciliare.
Benedetto Calati

Benedetto Calati (1914-2000)[1], al battesimo Luigi, nacque a Pulsano (Taranto) da una famiglia umile e povera ma ricca di umanità, di intelligenza e di spirito di preghiera. Nel 1926 entrò nel noviziato carmelitano di Mesagne (Brindisi), dal quale fuggì nella notte dell’11 luglio 1930 per recarsi a Camaldoli, in cerca della radicalità della vita contemplativa. Iniziò il noviziato nel Sacro Eremo, assumendo il nome di Benedetto.

 

Nel 1932 emise la professione monastica. Dopo aver completato gli studi teologici, ricevette l’ordinazione presbiterale nel 1937. Nel 1939 fu inviato al monastero di Fonte Avellana come maestro dei giovani chierici, dove si dedicò allo studio intenso delle fonti originarie della congregazione camaldolese e dei Padri della Chiesa, che continuerà per tutta la vita, con particolare attenzione a Gregorio Magno. Dal 1951 al 1969 fu superiore del monastero di san Gregorio al Celio, a Roma, e procuratore della congregazione presso la Santa Sede.

 

In un periodo travagliato per la vita della congregazione camaldolese, in particolare per quanto si riferisce ai rapporti con le autorità ecclesiastiche, nel 1969 fu eletto priore generale, svolgendo questo servizio per 18 anni e dando un impulso decisivo al profondo rinnovamento della vita monastica.

Dal 1951 fino ai primi anni ottanta fu docente di spiritualità monastica medioevale presso l’istituto monastico del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo. Insegnò inoltre per alcuni anni teologia spirituale alla Pontificia Università Lateranense, esegesi patristica presso il Pontificio Istituto Biblico e spiritualità monastica presso l’Istituto di teologia della vita consacrata Claretianum.

 

Un profeta

 

Pur restando lontano dalle ribalte, Calati è stata una delle figure più incisive per la vita della Chiesa italiana, nel rinnovamento che seguì il Concilio Vaticano II, soprattutto per quanto riguarda la riscoperta della lectio divina nell’approccio alla Bibbia, secondo il metodo dei monaci e dei Padri della Chiesa. Perseguì con determinazione il rinnovamento della vita monastica e si aprì con molta generosità al movimento ecumenico, accogliendo tre sessioni nazionali del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche) negli anni ‘68-70 e rispondendo positivamente alla proposta di dare inizio, proprio a Camaldoli, ai “Colloqui ebraico-cristiani”, fondati da Innocenzo Gargano, suo confratello e discepolo.

 

Promosse il passaggio della stabilità monastica a Camaldoli di B. Griffith, noto monaco anglo-indiano, erede a Shantivanam dell’ashram fondato in Tamil Nadu (Sud India) da due grandi pionieri del dialogo inter-religioso J. Monchanin e H. Le Saux. Negli ultimi anni del suo servizio come priore generale favorì il movimento “Itinerari e Incontri” fra credenti e non credenti, aprendo loro le porte dell’eremo camaldolese di Monte Giove (Fano).

Con la sua personalità, universalmente riconosciuta come profetica, e grazie alla sua enorme capacità di accoglienza Calati fu per molti in Italia, cristiani e non cristiani, importante punto di riferimento. Egli seppe andare molto al di là dei confini confessionali con il sincero desiderio di imparare da tutti, uomini e donne, quali che fossero le ideologie o le strutture, ecclesiali e non, di appartenenza, quando li percepiva in sincera ricerca della verità e della giustizia. A lui interessava dell’altro l’umanità e l’autenticità, doti che gli permettevano di scoprire nell’altro o nell’altra un fratello o una sorella da amare con sincera amicizia.

 

Stare sul confine

 

Un’altra delle sue caratteristiche fu quella di un’assoluta fiducia nell’azione dello Spirito Santo “che fa continuamente nuove tutte le cose” (cf. Ap 21, 5). Da qui il suo costante desiderio di stare sul confine, rischiando se necessario sofferenza e, si potrebbe dire, il martirio provocato dal giudizio degli uomini ritenuti importanti nella Chiesa e nella società. Restò vicino, per esempio, ai cosiddetti “comunisti cristiani” (come F. Balbo, F. Rodano e altri) quando fu loro comminata la scomunica del Sant’Uffizio (1948). Accolse con paterna benevolenza preti in crisi affettiva che cercavano comprensione nei loro drammi personali, oppure uomini politici che ritenevano opportuno fare scelte non condivise dalle indicazioni pastorali ufficiali della Chiesa italiana. Mantenne un’amicizia affettuosa e fedele, ma ritenuta da molti scandalosa, con alte personalità comuniste italiane, come gli onorevoli P. Ingrao, R. Rossanda e M. Tronti.

 

Negli ultimi anni Benedetto viaggiò continuamente lungo tutta l’Italia, per comunicare il dono della Parola che erompeva con forza dal suo cuore. Durante uno di questi viaggi, in un rovente pomeriggio del luglio 1995, lo colpì un ictus, dal quale si riprese sufficientemente, anche se faticosamente e caparbiamente, riconquistando una accettabile capacità di parola, di scrittura e un certo grado di movimento. Il senatore R. La Valle, in un testo edito recentemente, ricorda l’affettuosità che caratterizzò l’ultimo incontro di Calati, ormai segnato profondamente dalla sua malattia, con amici dello stesso ambito culturale e politico, avvenuto a Monte Giove nell’estate del 2000, appena qualche mese prima della sua morte[2].

 

Scrisse R. Rossanda, in un articolo del quotidiano italiano Il Manifesto del 10 giugno 1994, a proposito degli incontri di Monte Giove: “Non è casuale che il terreno degli incontri sia quello più proprio di Benedetto Calati, studioso di Gregorio Magno, uomo dei tempi di crisi, quando era caduto l’impero romano e Roma si chiedeva chi fossero i barbari e che cosa significasse latinità. La patristica è il pensiero ancora non tutto codificato, in ricerca, quello delle epoche dei grandi cambiamenti. Ma ascoltiamo i mistici, per loro siamo salvi, che ci importi o no. Benedetto Calati ci guarda in altro modo: egli insegue nella storia la parola della profezia, noi leggiamo la profezia come problema della storia. La rivelazione resta fuori causa, terreno suo che non ha urgenza di compartire. Quel che possiamo compartire è l’amicizia, il rispetto, qualche tempo separato dalla quotidianità, le ore dell’eremo, qualche silenzio[3].

 

I laici: grande risorsa per la Chiesa

 

La fede nella incarnazione di Dio e il riconoscimento della indisponibile alterità di Dio lo resero appassionato interlocutore e ascoltatore degli altri, con-cercatore con loro. La preghiera liturgica e la lettura della Scrittura, strutture portanti della vita monastica, furono intensamente vissute da Benedetto alla luce della incarnazione del Verbo di Dio e nella prospettiva della storia della salvezza.

Così, la sua mistica non si oppose alla storia, alla sua concretezza e laicità, bensì da essa si lasciò interrogare e stimolare, con essa si sapeva solidale, ad essa si sentì indirizzato. Per questo, Benedetto, monaco e presbitero, non si limitò ad “apprezzare” e “incoraggiare” i laici, anche se lo fece con forza, ma giunse fino al punto di dire che questo è il loro tempo e che essi debbono far esplodere il mondo. Ma la radice di tale apertura fu ben più profonda e vasta di una semplice reazione alla subordinazione clericale dei laici. Calati testimoniò il mistero che è laico e divino insieme, costituito in laicità in forza della modalità stessa dell’opera di creazione e di salvezza.

 

Maestro perché discepolo

 

Calati fu un autodidatta che, nel contesto assai difficile in cui crebbe, dovette raccogliere tutte le proprie forze per entrare nella lettura e nella comprensione di quanto riteneva indispensabile per la propria crescita spirituale. Scoprì dei maestri, soprattutto del passato, i quali, pur incontrati unicamente attraverso la carta, diventarono persone vive da interpellare e da cui lasciarsi interpellare, in una dialettica reciproca talvolta molto forte, ma anche in una intimità estremamente profonda e carica di eros. Calati fu infatti uno studioso che privilegiò le ragioni del cuore sulle ragioni dell’intelligenza, perché di fatto le ragioni del cuore furono spesso prevalenti in lui sulle ragioni della pura logicità razionale.

 

Una grande ricchezza fu per Calati la lettura precisa, critica e simpatetica degli autori del XX secolo che stimolarono la sua riflessione e che criticò con sistematicità, a partire dalla tradizione da lui conosciuta, sia pure da autodidatta, e da letture, consigli e provocazioni di tipo più decisamente accademico, dovuti alla frequentazione dell’amico C. Vagaggini, professore, decano e per alcuni anni rettore del Pontificio Ateneo Anselmiano. Il riferimento a Vagaggini mi permette di ricordare anche altre personalità determinanti nello sviluppo del pensiero di Calati. Nella riflessione teologica, per esempio, A. Stolz e M. Cordovani; nella cultura generale, personaggi del calibro di G. Lazzati e G. Dossetti. Sul piano più strettamente legato alla ricerca sulla spiritualità, fu determinante, in un certo periodo della vita sua, anche la presenza del sacerdote fiorentino D. Barsotti.

 

La storia è sempre una historia salutis

 

Grazie alla sua ricerca personale, alla lettura degli autori più conosciuti del suo tempo, all’amicizia con personaggi di straordinario valore, Calati cominciò a costruire però anche una sua sintesi personale di spiritualità cristiana, intesa come historia salutis sempre in atto, riproposta attraverso il grande tema tradizionale del “ritorno al paradiso”.

Secondo Calati il mistero dell’alleanza è tutto all’interno della historia salutis, in cui si trova l’unica strada per entrare nella vita divina, utilizzando gli strumenti proposti dalla Chiesa: Scrittura, Padri e liturgia, che nella Chiesa hanno il loro habitat naturale e alla Chiesa tendono nell’esercizio della carità perfetta.

 

Infatti, nel pensiero di Calati l’historia salutis parte dall’esperienza paradisiaca originaria, interrotta dalla libera scelta dell’uomo che lo costringe fuori dal paradiso stesso, e prosegue poi col continuo ripetersi di interventi divini nella storia dei patriarchi, dei giudici, dei re e dei profeti di Israele. Questi interventi tendono a spingere l’uomo a riaprire gli occhi e iniziare un cammino di ritorno, reso finalmente possibile da Gesù di Nazareth, Messia e Signore, che promette al buon ladrone e, attraverso di lui, alla intera umanità: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23, 43).

 

Da qui la centralità del mistero di Gesù di Nazareth, riconosciuto come Cristo e Signore, e dei mezzi sacramentali attraverso i quali l’uomo, congiunto alla croce, morte, resurrezione di Lui, realizza il ritorno voluto dal Padre. La comunione con la Chiesa, nata dall’annunzio della Parola, nutrita dalla Parola e dal sacramento, è già caparra, qui su questa terra, della pienezza attesa nei cieli.

Una delle idee di fondo di Calati è che non si possa dare esperienza mistica più grande di quella garantita dalla comunione con Cristo, attraverso il sacramento. Parola e sacramento, Scrittura e liturgia sono i due binari sui quali viaggia l’itinerario spirituale di Calati, verso il compimento escatologico e la realizzazione del “ritorno al paradiso”.

 

Per fondare storicamente, teologicamente ed esistenzialmente questa sua intuizione, Calati fa indagini, non necessariamente sistematiche, sulla grande tradizione cristiana. In alcuni autori, le sue indagini arrivano molto in profondità, ma ogni suo approfondimento suppone sempre l’insegnamento principe di Gregorio Magno.

Per Benedetto san Gregorio è il modello per eccellenza. Di questo uomo admirabilis, Calati sottolinea l’humanitas romana, ma soprattutto l’armonia e l’equilibrio perfetto della vita attiva e contemplativa insieme. Gregorio è il modello del monaco, ma anche del padre e del vescovo. La Regula pastoralis di Gregorio, le sue Omelie su Ezechiele e sui Vangeli, nutrimento quotidiano del pensiero di Calati e della sua tensione cristiana, monastica e missionaria, sono posti a strettissimo contatto anche con la Regula monachorum,

 

Il cammino verso il paradiso, nasce, secondo Calati, all’interno della Chiesa, riconosce nella celebrazione sacramentale la sua fonte e il suo culmine, si pone alla scuola di Gregorio Magno, ma poi è garantito da alcune discipline concrete di vita, prima fra tutte la prassi quotidiana della lectio divina, intesa però non come un semplice incontro con il libro delle Scritture, ma come un continuo relazionarsi del testo con il lettore del testo e viceversa. “Divina eloquia cum legente crescunt” (le parole divine crescono insieme con chi le legge), massima gregoriana per eccellenza, nutrì fin dall’inizio la riflessione di Calati e non lo ha lasciato fino agli ultimi giorni della sua vita.

 

La profezia: chiave di ogni interpretazione

 

La storia degli uomini, con cui si confrontò quotidianamente Calati alla luce della lectio divina, compie il testo scritturistico, facendone esplodere la profezia. Lo stesso testo – sottolinea spessissimo – rivela infatti dimensioni di sé sempre più profonde, a mano a mano che anche l’interlocutore del testo diventa egli stesso sempre più profondo e sempre più esigente.

Questa apertura continua del testo si conclude, nella riflessione di Calati, in un superamento altrettanto continuo di ogni prescrizione letterale, ma anche di qualunque altra prescrizione che possa essere individuata come restrittiva della libertà dello Spirito, sia essa istituzionale, carnale, legale, disciplinare o altro. Calati non nega mai la lettera, né la legge, né l’istituzione, né tanto meno la carne o la storia, e tuttavia non si ferma mai a nessuna di queste manifestazioni, insistendo invece che di tutte queste cose bisogna coglierne sistematicamente lo spirito.

 

Questa la profezia di Calati. Un uomo molto terrestre, molto legato alle esigenze del corpo, ai sentimenti dell’anima, agli affetti, alla storia, e tuttavia proiettato continuamente verso la libertà che è propria dello Spirito. Ciò che Calati visse nella sua persona pensò poi di doverlo realizzare anche all’interno della sua comunità e della Chiesa, non accontentandosi neppure dei confini della Chiesa, desideroso sempre di proseguire oltre, fino a coinvolgere i suoi amici non credenti e l’intera umanità, verso il dono dei cieli nuovi e della terra nuova della realtà escatologica.

 

Una vita unificata

 

La riflessione teologico-spirituale di Calati tiene conto della necessità dell’attraversamento, ma non dimentica mai l’obiettivo del “reditus ad paradisum”. Da qui la sua proposta di una vita unificata, che impone di fatto un continuo andare oltre qualunque contrapposizione che non si risolva nell’unificazione, sempre cercata anche se consapevolmente attesa solo per la fine dei tempi. Nessuna contrapposizione perciò tra storia e spirito, tra dialettica ed esperienza spirituale, tra istituzione e carisma, così come non c’è nessuna possibilità di contrapporre, nel caso specifico della vita cristiana e monastica, vita attiva e vita contemplativa.

 

Il modello di Calati rimane costantemente quello della vita unificata. Un modello che egli ritrova in tutti gli aspetti della vita cristiana. Lo ritrova nella visione unitaria dei due Testamenti, perché non ci può essere contrapposizione tra il Dio creatore dell’Antico Testamento e il Dio redentore del Nuovo Testamento, così come non ci può essere contrapposizione tra Sinagoga e Chiesa. Lo ritrova nell’unità sostanziale da affermare tra l’uomo e il cristiano, tra uomo e donna, tra storia vissuta su questa terra e storia pienamente realizzata alla fine dei tempi.  

 

Se l’obiettivo è il “ritorno al paradiso” e questo ritorno comporta una vita unificata, il punto di arrivo non può infatti non coincidere con la carità perfetta. Quale che sia la strada da percorrere per raggiungere questo obiettivo, resta il fatto che il punto di arrivo rimane quello di perseguire tutti, ciascuno secondo la propria sensibilità e secondo la chiamata particolare ricevuta dallo Spirito, il pleroma, cioè la pienezza del “ritorno al paradiso” e della carità perfetta. Una volta raggiunta questa vetta dell’esperienza cristiana, è del tutto scontato per Calati che la carità perfetta trabocchi al di fuori di sé, espandendosi nella condivisione con gli uomini.

 

Nell’ultimo periodo della sua vita, pur portando in sé tutte le stigmate dell’itinerario personale, in certi periodi anche estremamente rigido sul piano ascetico e dunque segnato dalle conseguenze di una vita solitaria condotta con estremo rigore, Calati aveva ormai superato tutto questo, grazie alla scoperta della perfezione dell’amore. Di tutti i titoli che si sarebbero potuti dare a Calati, l’unico titolo che accettò per sé, magari ridendoci sopra – sottolinea P. Gargano nei suoi cenni biografici –fu il titolo di profeta. Non perché

Benedetto si autodefinisse profeta, ma perché si considerò nient’altro che il portatore della Parola di Dio. Profeta come colui che cerca di utilizzare sempre la luce della Parola di Dio per scandagliare la storia.

 

In questo senso Calati è stato fu un contemplativo perfettamente inserito nella storia. Il suo insegnamento aiuta ancora noi, suoi contemporanei, a non fermarci alla superficie della storia, ma a scoprirne le profondità, rivelando che in profondità, anche le situazioni più angoscianti, più drammatiche, più assurde della storia umana, portano sempre dentro di sé un messaggio positivo di amore. Infatti Ognuna di queste manifestazioni, infatti, è parte integrante dell’unica historia salutis che Dio scrive, rispettando in tutto e per tutto la libertà degli uomini.

 



[1] Per una conoscenza più ampia rimando al volume: G. Paris, Uomo di Dio, amico degli uomini. L’insegnamento spirituale di P. Benedetto Calati, EDB, Bologna 2007, con ampia bibliografia. Nel volume è possibile inoltre rintracciare le fonti di quanto esposto nel presente articolo.

[2] Cf. R. La Valle, Prima che l’amore finisca, Ponte alle Grazie, Milano 2003, p. 22.

[3] R. Rossanda, Incontri. Dialoghi aperti tra Dio e la storia, in Il Manifesto, 10 giugno 1994, p. 29.

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