Benché sia notte
Castiglia e León, Andalusia: due delle diciassette comunità autonome della Spagna. La prima prende nome dai due antichi reami e possiede il 60 per cento dell’intero patrimonio architettonico, artistico e culturale presente nel Paese iberico, con ben otto beni culturali riconosciuti dall’Unesco e la maggior concentrazione di stile romanico al mondo. Ha come centro principale Valladolid, seguito da Burgos e Palencia. Più popolata è invece l’Andalusia, anch’essa ricchissima di storia e cultura, con capoluogo Siviglia. Evoca questi territori – quali erano nel XVI secolo, epoca di grandi mistici e di accese dispute teologiche, conseguenti alle Riforme luterana e cattolica – una nuova biografia del santo e dottore della Chiesa Giovanni della Croce: Benché sia notte.
Edita da Ares, l’opera rientra in quel genere di narrazione – le vite dei santi – che da sempre ha attirato il lettore cristiano, a lungo privilegiando miracoli e prodigi. Oggi i criteri sono diversi: si è più attenti alla documentazione storica e alla critica delle fonti, anche se si rischia di esagerare nel senso inverso, mettendo in sottordine l’aspetto mistico, il colloquio intimo con Dio origine di ogni vera esperienza di santità.
Questo difficile equilibrio è stato raggiunto dall’autore Mario Arturo Iannaccone, che ha affrontato felicemente l’impresa di reperire e ordinare i documenti, di valutarne gli aspetti reali sfrondandoli dagli schemi di santità in auge nel periodo barocco e di armonizzarli col complesso universo simbolico e poetico scaturito dal percorso spirituale del mistico spagnolo, rimettendo così in luce la sua vera missione: «Riscrivere per la Chiesa l’antica parola biblica dell’amore, che già risuonava nel Cantico dei cantici – sottolinea p. Antonio Maria Sicari nella presentazione –. Di questo aveva bisogno la Chiesa del suo tempo e questo egli ha realizzato, divenendo un grande “poeta dell’amore”, anche dal semplice punto di vista letterario».
L’inizio del libro è una fuga di notte, simbolo di un’altra notte, quella dello spirito, che prelude all’alba dell’unione sponsale con Dio. Era il 16 agosto 1578 quando dal buio della fetida celletta nella quale aveva languito senza lamentarsi per quasi nove mesi Giovanni della Croce riuscì ad evadere, calandosi dalle alte mura del convento dei carmelitani “mitigati” a Toledo. Fuga senza strascichi di scrupoli, giacché ingiusta era stata l’accusa mossagli di aver creato disordini nel monastero di Avila. In questa parte più propriamente biografica, l’autore traccia il percorso umano e spirituale di colui che con Teresa d’Avila fondò l’Ordine dei carmelitani scalzi o riformati.
Juan de Yepes Álvarez (nome secolare del santo), nacque a Fontiveros, un borgo della Vecchia Castiglia, nel 1542. Orfano di padre già in tenera età, vagò di città in città con la madre, che molto s’affaticò per provvedere al sostentamento della famiglia. Giovanissimo, Juan manifestò inclinazione alla carità verso i poveri e più ancora verso la preghiera contemplativa. Successivamente falegname, sarto, pittore e intagliatore, quindi accolito della chiesa della Maddalena, commesso e aiutante infermiere nell’Ospedale della Concezione, nel 1563 entrò nell’Ordine carmelitano chiedendo di vivere senza attenuazioni la rigida e antica regola non più attuata. Tra il 1564 e il 1568 completò gli studi teologici e filosofici all’Università di Salamanca.
Il 1567 segna la sua ordinazione sacerdotale e l’incontro con Teresa d’Ávila. Juan ne appoggiò in pieno il progetto di riforma dell’Ordine carmelitano, e a sua volta Teresa lo prese in grande considerazione, chiamandolo il suo “piccolo Seneca”, con scherzoso ma affettuoso riferimento alla sua taglia minuta, e “padre della sua anima”. Degno di nota il fatto che, in un’epoca in cui la donna era sottovalutata, entrambi seppero mantenere un rapporto paritario, aiutandosi a vicenda a percorrere il cammino verso la santità.
Nell’agosto 1568 Juan fondò a Valladolid il primo convento di carmelitane scalze e all’inizio di ottobre, a Duruelo (Segovia), il primo del ramo maschile: occasione nella quale assunse il suo nome da religioso. Tra il 1572 e il 1577, all’interno dell’Ordine riformato, prestò servizio di guida spirituale nel monastero dell’Incarnazione di Ávila. Famoso per esser dedito alle più aspre penitenze, fu tuttavia contrario agli eccessi di troppo zelanti e inesperti discepoli.
Le sofferenze fisiche e spirituali dovute alla sua adesione alla riforma teresiana culminarono nell’arresto e nella carcerazione, il 2 dicembre 1577, presso i carmelitani calzati di Toledo. Sottoposto per mesi a maltrattamenti fisici, psicologici e spirituali, Giovanni trovò peraltro l’ispirazione per comporre alcuni dei suoi poemi mistici più noti. Della sua fuga avventurosa si è già detto.
Dopo questa esperienza che gli valse a descrivere le angosce della “notte oscura” (mentre esternamente trasmetteva pace e sicurezza), il maestro del Nada y Todo riprese gradualmente diversi incarichi importanti nell’Ordine riformato, ormai avviato verso l’autonomia. Nell’ultimo periodo della sua vita venne abbandonato dalla maggior parte dei seguaci. Si attuava così per lui la totale desnudez, lo spogliamento necessario per l’unione mistica, come è scritto nella Salita al monte Carmelo: «L’anima che vuol salire sul monte della perfezione deve rinunciare a tutte le cose».
Il 1591 lo trovò peggiorato in salute e dimesso dagli incarichi direttivi nell’Ordine. Gli ultimi mesi li trascorse ad Úbeda (Jaén), dove morì tra il 13 e il 14 dicembre all’età di 49 anni.
La seconda parte del volume, sulle opere riguardanti soprattutto la preghiera e il cammino spirituale dell’anima, è una introduzione alla sua poesia, «poesia circonfusa di un fascino particolare per quel suo dire qualcosa dicendo altro; per essere poesia religiosa non sembrandolo affatto. E per l’originalità, financo la stranezza, di quei versi melodiosi che – ammette l’autore – non dicono nulla in confronto di ciò che dovrebbero». In effetti Giovanni della Croce è considerato uno dei maggiori poeti della nazione iberica: era questo il linguaggio in cui eccelleva.
In prosa, invece, scrisse tre trattati di teologia mistica che, insieme ai suoi Pensieri sull’amore e sulla pace e agli scritti di Teresa d’Ávila, avrebbero influenzato molti scrittori spirituali, filosofi, teologi, pacifisti dei secoli seguenti.
Vera summa sulla vita e l’opera del grande mistico col pregio di un linguaggio giornalistico, la biografia di Iannaccone s’intitola da un verso del Canto dell’anima che gioisce di conoscere Dio attraverso la fede (1578), la cui prima strofa recita «Resta nascosta quell’eterna fonte,/ma io ben so dov’è la sua dimora,/ benché sia notte».