Bellezze italiane in (s)vendita

Una riflessione sulle nuove norme relative alle concessioni balneari e al piano casa contenute nel Decreto legge per lo sviluppo proposto da Tremonti
Tremonti Giulio

Gli italiani si sentono italiani per la bellezza del loro paesaggio e della loro cultura. Sembra strano a dirsi, ma sono questi i risultati di una rilevazione statistica condotta da Demetra (marzo 2011), e resa nota la scorsa settimana, che chiedeva ad un campione di italiani quali fossero gli aspetti che più li rendevano orgogliosi. Bene, senza esitazione, il 74,9 per cento degli intervistati ha risposto per “il nostro patrimonio artistico e culturale” e subito dopo, ben il 71,1 per cento “per la bellezza del nostro territorio”.

 

Raramente esiste uno scarto così profondo tra percezione collettiva e diffusa di un valore (la Bella Italia) e comportamenti pubblici. Gli italiani dimostrano scarsa attenzione a come il territorio italiano venga maltrattato, svenduto, abbandonato agli interessi privati e agli appetiti di costruttori, speculatori, mafiosi.

 

Un durissimo ennesimo colpo alla salvaguardia del nostro territorio rischia di essere dato dal Decreto legge per lo sviluppo appena annunciato dal ministro Tremonti e dal premier Berlusconi. Un decreto che nasce con ragioni d’urgenza, ma che contiene alcune norme molto discutibili sia sul piano del merito che dell’efficacia e che violano alcuni principi imposti dall’Unione Europea e che il nostro Paese disattende da anni. Mi riferisco in particolare a quelle riguardanti le “Concessioni balneari per 90 anni” e “gli appalti e il Piano Casa”.

 

Per le concessioni balnerari, fermo restante il diritto di passaggio su spiagge e scogliere, il terreno (o l’immobile) su cui insistono insediamenti turistici sarà oggetto non più di concessione, ma di diritto di superficie; il prestito durerà 90 anni e il pagamento sarà annuo e determinato dall’agenzia del territorio in base dei valori di mercato.

 

Il ministro rassicura che «le spiagge resteranno pubbliche» e che «il diritto acquisito sarà ovviamente a pagamento e noi riteniamo che sarà pagato molto bene, ovviamente a condizione che ci sia regolarità fiscale e previdenziale».

 

Diritto di chi? È la logica sottesa al provvedimento che dovrebbe farci problema: perché corrobora l’idea (già ampiamente diffusa) che i beni comuni (il paesaggio, le spiagge, le opere d’arte) siano primariamente dei beni che debbono generare profitti per qualcuno e non beni da mantenere e conservare per il benessere, la salute, lo svago di tutti. In questo senso si sono espresse le opposizioni e molte associazioni di ambientalisti che evidenziano come in nessun paese d’Europa si sia arrivati ad una simile gestione del demanio marittimo.

 

 

Per il Piano Casa le norme prevedono un “premio” fino al 20 per cento in più del volume per le case che saranno riqualificate, con un occhio alla riqualificazione energetica e fino10 per cento di ampliamento “della superficie coperta per gli edifici adibiti ad uso diverso” da quello residenziale. Queste percentuali, all’apparenza innocenti, rivelano invece una logica di massimizzazione del profitto individuale e il prevalere dello spazio privato su quello pubblico e comune – tu puoi ampliare la tua proprietà privata anche a scapito del contesto circostante – e di benevolenza per ogni nuovo consumo di suolo. Con danni evidenti per il territorio.

 

Ma, il danno più grave della logica del federalismo fiscale, entro cui anche questo decreto si colloca, è valoriale: rischia di impoverire quella già scarsa cultura civile che possiede il nostro Paese. Se arricchirsi è un dovere, fare cassa una necessità a qualunque costo, interessarsi della cosa pubblica un obiettivo sempre meno sentito, come faremo a salvaguardare quelle bellezze del nostro paese cui tanto siamo affezionati?

 

Bisogna cambiare rotta. È una questione culturale, ma le ricadute sono anche di ordine economico. Se dissiperemo le bellezze del nostro territorio, faremo come quegli ignari abitanti dell’Isola di Pasqua che dopo avere distrutto tutti gli alberi della loro isola, non erano più neanche in grado di costruire le loro navi.

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