Beirut: a due anni dall’esplosione nel porto

L’arresto e il successivo rilascio di William Noun, un attivista del collettivo delle vittime dell’esplosione al porto di Beirut (4 agosto 2020), ha riacceso i riflettori sul dramma del Libano. Melhem Khalaf, fondatore di Offre-joie e deputato indipendente, ha scritto: «Se la giustizia sarà in grado di ridare fiducia alla gente, allora potrà diventare la pietra angolare di un nuovo Libano, finalmente riappacificato. Altrimenti, crollerà tutto»
Beirut
Proteste antigovernative contro il presunto coinvolgimento di Hezbollah nella terribile esplosione al porto di Beirut. (Foto AP/Bilal Hussein)

Tutti ricordiamo la terribile esplosione nel porto di Beirut, in Libano, del 4 agosto 2020, una delle più grandi deflagrazioni non nucleari della storia, con una potenza pari a un decimo della bomba atomica di Hiroshima. Provocò la morte di 235 persone e oltre 7 mila feriti, il porto e centinaia di case distrutte, danni difficili da calcolare. Si parlò di un silos in cui erano stivate in modo irresponsabile, da sei anni, 2.755 tonnellate di nitrato d’ammonio, un composto chimico che viene utilizzato anche come fertilizzante, ma soprattutto come base per produrre esplosivi.

A 28 mesi dal disastro, le indagini sulle responsabilità non sono mai veramente partite a causa di puntualizzazioni burocratiche, distinguo, ricusazioni di giudici, immunità insormontabili, senza parlare di scontri a fuoco tra fazioni, eccetera. Pare che una certa casta politica libanese, e almeno una parte della magistratura, abbiano fatto proprio il detto manzoniano, adattandolo alla situazione: questo “processo” non s’ha da fare, né domani, né mai. Per perseguire questo scopo, si sa, basta impiantare una “fabbrica del sospetto”, come la definisce Nizar Saghieh, fondatore di una ong libanese impegnata nella promozione della giustizia sociale e dell’indipendenza della magistratura: «Abbiamo il record mondiale [di ricusazioni], finora ne sono state presentate almeno 40. Il problema è che la legge libanese prevede che le indagini si fermino ogni volta che una domanda di ricusazione viene depositata, indipendentemente dalla solidità delle motivazioni». Poi c’è il blocco della Corte di Cassazione per le mancate nomine di nuovi membri, ultimamente si è ipotizzata la necessità di affiancare a Tarek Bitar, il giudice designato, un secondo magistrato (magari vicino al potere). Eccetera, numerosi eccetera.

William Noun è un attivista del collettivo delle vittime dell’esplosione al porto di Beirut: suo fratello Joe, pompiere, è fra le persone morte nella tragedia. In una manifestazione davanti al tribunale di Beirut, il 10 gennaio scorso, Noun avrebbe rotto qualche vetro e minacciato di usare la dinamite contro il tribunale, se il blocco delle indagini fosse proseguito. Risposta delle autorità: Noun è stato arrestato il 13 gennaio e una dozzina di familiari delle vittime sono stati convocati per gli interrogatori.

Ma il giorno dopo si è riunita davanti alla sede della Sicurezza, dove Noun era agli arresti, una folla, supportata dalle telecamere di alcune emittenti che hanno dato grande visibilità alla protesta, per chiedere la liberazione del giovane attivista. I manifestanti provenienti anche da Jbeil (Byblos) e Batroun, oltre che da e Beirut, hanno bloccato le strade e minacciato un’escalation di proteste se Noun non fosse stato rilasciato. Alla manifestazione hanno aderito anche l’imam della moschea di Jbeil e il patriarca maronita, oltre ad alcuni deputati. Tra loro, accanto alla madre di William Noun, era presente Melhem Khalaf, ex presidente dell’Ordine degli avvocati di Beirut e fondatore (nel 1985) dell’associazione Offre-Joie (“Amore-Rispetto-Perdono” il suo motto), conosciuta e stimata da moltissimi libanesi, non solo cristiani, tanto che riunisce giovani e meno giovani di tutte le regioni e fedi presenti nel Paese dei cedri. Nelle ultime elezioni di maggio 2022, Khalaf (60 anni), greco-ortodosso, è stato eletto deputato tra gli indipendenti, che sono espressione delle proteste popolari che dal 2019 si oppongono alla casta che blocca il Paese.

La sera del 14 gennaio, William Noun è stato rilasciato su cauzione, accolto con un’ovazione dai manifestanti. Le sue parole sono state: «Noi vogliamo la verità sull’esplosione che è costata la vita a mio fratello, nient’altro».

Problema serio, la verità, in questo Libano dove non si riesce ad eleggere il presidente della Repubblica e il governo non si sa se c’è e cosa fa. Per non parlare della débâcle economica e finanziaria, della povertà, della fuga di professionisti libanesi all’estero, dei profughi siriani e palestinesi, dei blackout elettrici di molte ore ogni giorno, della carenza di farmaci e di generi alimentari.

Il noto giornalista libanese Fady Noun, scrive (ripreso da Asianews.it) a proposito delle interferenze alle indagini della magistratura: «È ormai risaputo che l’indagine per identificare gli autori di questo crimine collettivo è ostacolata dal tandem sciita (Hezbollah e Amal), mediante eccezioni e impedimenti di forma e sostanza sollevati contro il magistrato istruttore Tarek Bitar». Cosa c’è dietro, cosa potrebbe emergere? Questa è la domanda che si pongono tutti, anche se le ipotesi non mancano. Una fra le tante emergerebbe da un rapporto dell’Fbi di ottobre 2020, commissionato dal governo libanese: al momento dell’esplosione nell’hangar 12 sarebbero state presenti solo 552 tonnellate di nitrato d’ammonio. E le restanti 2.203? Qualcuno ipotizza che tra il 2014 e il 2020 abbiano preso di nascosto la strada verso la Siria, all’epoca in piena guerra ormai non più solo civile (se mai lo è stata), ma sempre più internazionale.

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