Beethoven, ancora e sempre
Bisogna pur dirlo che il grande Ludwig ruba la scena a tutti. A Roma, all’Accademia Santa Cecilia, avrebbe dovuto esserci l’immenso Radu Lupu. Ma ha dato forfait per malattia. Così lo si è sostituito – si fa per dire perché Lupu è unico – con il palestinese trentaseienne Saleem Abboud Ashkar (nella foto). Guidava l’orchestra al suo debutto romano il ventiseienne tedesco David Afkham.
Serata tutta beethoveniana. Si inizia con l’ouverture Coriolano e si prosegue con il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra, si chiude con la Quarta Sinfonia. Gli anni di composizione sono intorno al 1806-7, quando Ludwig è sui trentasei anni, gli stessi più o meno dei giovani musicisti che lo interpretano. Che siano giovani lo si nota dall’impeto direttoriale che scandisce come fulmini martellanti l’ouverture, evidenziando la frase dei violini giusto il tempo per gustarne il suono lucente; accompagna poi soffice ma energico quando occorre il concerto per piano e poi nella Quarta Sinfonia (così destrutturante all’interno, anche se sembra scritta quasi senza sforzo) si diverte negli ultimi due tempi a galoppare sui contrattempo, ignorando un poco le dolcezze melodiche. Insomma il nostro direttore germanico ci sa fare con l’orchestra – poi è anche molto gentile con i professori, il che non guasta -, anche se certamente ha bisogno di affinarsi e di moderare la naturale impulsività. Ma in fondo il Beethoven di quegli anni non era forse uguale?
Il pianista fraseggia in modo cristallino, ricama trilli e sforzandi, precisissimo. Forse un po’ rigido in certi stacchi. Ma Ashkar ha comunque carattere, personalità e timbro lucente, come si nota nel soffice brano di Brahms che regala come bis. Buona la prestazione dell’orchestra, anche se i timpani sfiorano talora il troppo forte.