Beati gli idioti

Dostoevskji e il discorso della montagna. Il più sofferto romanzo del grande autore russo secondo la lettura di Daniele Castellari
Dostoevskij ritratto da Vasilij Peróv (1872), Galleria Tret'jakov di Mosca.

Mentre dal suo esilio per debiti era intento, tra Svizzera e Italia, a scrivere L’Idiota, romanzo arduo e innovativo che avrebbe segnato una svolta nella sua carriera letteraria, Dostoevskji si proponeva di creare un personaggio che rappresentasse «un uomo assolutamente buono». In realtà la traduzione italiana “buono” non rende l’originale russo prekrasnyj, che, come il kalos kagathos greco, sta ad indicare la bellezza e la bontà insieme. Come dire: uno splendore di uomo, un uomo nella sua pienezza luminosa. Che poi il protagonista principe Lev Nikolàevič Myškin, l’Idiota, sia un epilettico, è la prova che Dostoevskji non intendeva farne un superuomo, bensì un testimone imperfetto che in qualche modo riflette l’inarrivabile persona umano-divina di Cristo.

Certo è che lo scrittore esitò e si tormentò parecchio per dar corpo a questa intuizione, come dimostrano le lettere e gli appunti presi durante la lavorazione del romanzo, che iniziato nel settembre 1867 a Ginevra, doveva apparire a puntate sulla rivista moscovita Russkij Vestnik. Pubblicato poi in volume, Dostoevskji non rimase del tutto soddisfatto del risultato: troppo ambiziosa la meta che s’era proposta! Tuttavia rimase ad esso profondamente legato come all’opera nella quale, per sua ammissione, c’era tutto lui.

Mi chiedo se un titolo alternativo a L’Idiota avrebbe potuto essere Un uomo: così infatti viene definito il principe Myškin da Nastas’ja Filìppovna – innocenza macchiata eppur indomita –, che in uno dei momenti più esplosivi del romanzo fra tutti i suoi spasimanti gratifica lui, il meno interessato a possederla, col dire: «Addio, principe, per la prima volta ho visto un uomo!»: un palese riferimento all’Ecce homo del Vangelo, un altro tocco di somiglianza dell’Idiota con Cristo.

Del resto, come Cristo, anche Myškin attrae irresistibilmente chiunque venga a contatto con la sua mitezza, umiltà, candore, generosità e sincerità: tutte doti che se da una parte abbattono le difese degli interlocutori, dall’altra mettono a nudo le zone oscure, non abitate da verità, degli stessi: suscitando perciò in loro anche imbarazzo, tranne nel caso dei bambini con i quali invece egli dimostra una immediata affinità.

Incompreso anche se benevolmente accettato dai membri della famiglia del generale Epancin, il principe è incapace di giudicare e di condannare, sa solo com-patire e far proprie le pene altrui. Myškin, in altre parole, non si sente investito della missione di “salvatore”, tant’è che di fronte al torbido del male il suo fervore angelico sembra bloccarsi. Così egli non redime Nastas’ja e non rende felice Aglaja, la più giovane delle figlie del generale: due figure diversissime di donne, delle quali egli parrebbe innamorato. Se la sua azione non ha il successo sperato, la causa va attribuita alle passioni che dilaniano i vari personaggi: sono esse a impedir loro di aderire al modello incarnato da uno come lui, un socialmente disadattato, che tuttavia ha la tendenza a sacrificarsi per il prossimo.

Se l’Idiota non può proporre sé stesso come salvatore, anche chi non ha letto il romanzo ha familiarità con la sua frase, oggi spesso fraintesa: «La bellezza salverà il mondo». Al giovane e tormentato Ippolit che in tono beffardo gli chiede di darne spiegazione, egli risponde col silenzio, simile in questo a Gesù di fronte ai sacerdoti e al sinedrio. A quale bellezza alluderebbe Myškin se non a quella che s’identifica con il bene? E un bene così tenace da poter resistere a tutti gli inverni del mondo, a costo di perdere la perfezione della forma e manifestarsi al limite attraverso il suo opposto: la bruttezza.

A questo punto non è fuori luogo il collegamento con la figura di Cristo, richiamato dalla seconda frase famosa del romanzo, anch’essa pronunciata dal principe. Quando Rogozin, follemente innamorato di Nastas’ja, gli mostra la copia di un quadro conservato al Kunstmuseum di Basilea che lo rappresenta nella rigidità cadaverica seguita alla morte in croce, Myškin esclama inorridito – ed è la stessa esclamazione sfuggita a Dostoevskji davanti a quest’opera di Holbein il Giovane: «Quel quadro! Ma quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno!». Non aggiunge altro, il principe. Parla per lui il silenzio, ma un silenzio che è rivelazione. Solo chi, superando lo scandalo di un Cristo fallito, sfigurato, rifiutato degli uomini e – apparentemente – dallo stesso Padre intuisce il senso di tanta abiezione e ancora riesce a credere in una possibile resurrezione, solo lui può pronunciare con verità quella frase sulla bellezza.

Chi è dunque l’Idiota, questo personaggio che dalla pubblicazione del romanzo fino ad oggi non ha cessato di mettere alla prova critici letterari, filosofi e teologi? Tra loro c’è chi ha visto in Myškin uno jurodiv, un “folle di Dio”, figura tipica della tradizione popolare religiosa ortodossa, chi una sorta di don Chisciotte, chi invece un alter ego di Dostoevskij, non a caso lui pure malato di epilessia e afflitto da altre miserie umane come il vizio del gioco. In ogni caso viene in rilievo una volta di più la drammaticità con cui lo scrittore ha inteso raffigurare la condizione umana nell’intera sua produzione, ma qui forse con particolare forza, mettendo in gioco perfino certe incongruenze dovute alla tormentata stesura del romanzo.

Una tra le più recenti interpretazioni, che assimila l’epiteto di “idiota” al “povero di spirito” del Vangelo e via via alle altre figure elencate nelle beatitudini, è quella di Daniele Castellari che nel suo Beati gli idioti. Dostoevskij e il discorso della montagna (Pazzini editore), dopo aver passato in rassegna alcune delle più acute letture fornite dell’Idiota, esemplifica gli episodi del romanzo meglio atti a rappresentare la presenza delle 8 beatitudini («8 modi per tentare di essere beato») nell’agire di Myškin e nei suoi effetti sugli altri personaggi. Seguendo i passi del principe – uno «che prende molto sul serio il Discorso delle beatitudini, sia per la dimensione di immanenza che per quella trascendente» –, chiosa ancora Castellari: «La sua resta l’avventura di un povero cristiano in marcia verso il presente-futuro della beatitudine evangelica, della quale vive la dimensione della promessa».

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