Beate
Un’opera prima, come tutte quelle partecipanti alla manifestazione: un esordio italiano selezionato tra i lavori che secondo Moretti sono stati i migliori della stagione scorsa. Beate, diretto dal regista Samad Zarmandili, è una commedia sociale, nel senso che con leggerezza tocca il tema – cronicamente infiammato – del lavoro in Italia. Siamo nel Nord Est del Paese, nel Polesine per l’esattezza: una terra da sempre stupenda, ma da anni segnata da profonde contraddizioni socio economiche. Quelle che il compianto Carlo Mazzacurati, col suo cinema delicato e poetico, che poteva essere di commedia e anche no, meglio di chiunque altro ha raccontato. Da Notte italiana, del 1987, fino al suo ultimo film, La sedia della felicità, del 2014, passando per gioielli nitidi come La lingua del santo, del 2000, e La giusta distanza, del 2007, i suoi film si sono impregnati spesso di quella pianura accarezzata dall’acqua e schiaffeggiata da personaggi rapiti dal desiderio di denaro e di potere: arroganti che su altri, più fragili, versavano arrivismo ed egoismo. Amarezza copiosa colava (anche) nelle risate esplosive di certi film di Mazzacurati, mentre in Beate è la favola a prendere il sopravvento, e i momenti più aspri, indigesti, realistici del film, si stemperano facilmente lungo il sentiero che conduce all’happy end finale.
Il film narra la storia, corale e tutta femminile, di alcune operaie tessili, tanto brave e unite nel lavoro quanto incapaci di evitarsi la cassa integrazione e il licenziamento: non possono combattere una padrona meschina che vuole investire in Serbia, dove la produzione costa meno, e allora non resta che picchettare la fabbrica, facendo i turni per mandare avanti la casa, i figli e via dicendo. Finché una di loro – l’ottima Armida di Donatella Finocchiaro – propone a tutte le altre di mettersi in proprio, di produrre senza padrone – col sogno di una cooperativa – le cose belle che queste donne sanno confezionare. Manca un luogo in cui operare, però, e mancherebbero anche gli strumenti di lavoro, ma siccome la fabbrica è chiusa, beh, almeno quelli si possono prendere – in prestito irregolare – dal luogo forzatamente abbandonato. Per l’altro problema, quello dello spazio, c’è il convento delle suore lì vicino, che forse una mano la possono dare: un po’ perché una di loro è la zia di Armida, e un po’ perché qualcuno – il solito impasto di bruttezza pubblica e privata – ha messo gli occhi sul loro antico e incantevole edificio. Dal campanile al magnifico chiostro, tutto potrebbe diventare un bel centro per il benessere del corpo, e alle suore è stato spiegato che se in breve tempo non realizzeranno certi lavori, “fondamentali”, di ristrutturazione – impossibili per le loro tasche vuote – l’intero convento passerà in mano ad altri. Un bel ricatto, insomma, una strozzatura, una somma di ingiustizie che non producono altra strada – per queste donne laiche o di chiesa che siano – che il tentativo di mettersi insieme, “illegalmente”, con la fatica maggiore che tocca proprio alle suore, visto che gli affari migliori – in un mondo tutto corpo e poco spirito – sono quelli legati alla produzione di biancheria intima un po’ osé. Le cose precipiteranno, e poi, miracolosamente – è proprio il caso di dirlo – si riaggiusteranno, in modo sorprendente per tutte.
Beate è un film gustoso, scorrevole, scoppiettante, a tratti spassoso. Non un capolavoro, ma per essere un’opera prima regge eccome, pescando da classici italiani come I soliti ignoti e Signore e signori, oltreché da modelli cult inglesi come Full Monthy e, soprattutto – parole del regista stesso nel dibattito dopo il film – dal molto femminile We want sex, del 2010. Un’italianizzazione di certa commedia d’oltremanica, in qualche modo, che vuole essere prima di tutto un omaggio al saper fare di tanti italiani senza nome, ancora di più di molte italiane che ogni giorno affrontano per bene il proprio lavoro nonostante le mancanze e le storture del sistema, nonostante una cultura serpeggiante dello sfruttamento e del disinteresse per il prossimo. Una carezza alla classe operaia di oggi, che ancora esiste, anche se spesso è afona, accanto alla quale interagiscono figure clericali femminili dipinte con bonarietà, buffe da far sorridere, spesso carine, delicate, dolci, ma anche leggermente caricaturali. Abbandonate da una chiesa del potere che invece abbraccia la peggior politica e gli affaristi che giocano sporco. E qui, si fa spazio uno stereotipo che facilmente caratterizza il cinema e la fiction popolare italiana: quello di una chiesa fatta di parole vuote e niente fatti, piena di falle e ipocrisia. A parte certi omaggi come l’eroismo sostenibile dell’immaginario Don Matteo o le agiografie dei vari santi del piccolo schermo, quando nella commedia o nel cinema comico italiano entra un prete o una suora, spesso questo assume un comportamento discutibile: nel film L’ora legale di Ficarra e Picone, il sacerdote del paesino interpretato da Leo Gullotta è attaccato ai beni terreni più di chiunque altro, senza dire mai qualcosa di cristiano. Nella serie Rai La mafia uccide solo d’estate (in generale ben fatta e utile a ricostruire certi aspetti drammatici della storia italiana legata alla mafia) l’unico personaggio consacrato è il Fra Giacinto di Nino Frassica, tanto surreale quanto colluso con la mafia. Nella validissima serie recente – sempre Rai – La linea verticale (che ha il pregio di toccare con intelligente leggerezza il tema del tumore), il sacerdote dell’ospedale interpretato da Paolo Calabresi è un pusillanime che non crede nella sua missione di dare conforto ai malati, e quando lui stesso si scopre affetto da tumore non incarna nessuna parola da lui pronunciata in precedenza. Per carità, costruire personaggi spiazzanti nutre la comicità, e la parodia e la satira sono elementi che vanno sempre difesi, rispettati e tutelati. Ma rinunciare puntualmente al racconto della bellezza del cristianesimo, anzi, insistendo tanto sul contrario, può alimentare le convinzioni negative di chi frequenta poco la materia, e questo è un peccato. Allora, quando un film come Beate dipinge senza veleno un gruppo di suore, rendendole simpatiche e sensibili, bisogna stare allegri, anche se poi nessuna di loro spende parole davvero efficaci sulla bellezza della fede, sulla gioia che regala vivere una vita da cristiani. Anche stavolta il tema è affrontato dall’esterno, con educazione e pudore, certo, ma senza particolare trasporto. Le protagoniste del film, in fondo, sono le operaie, come detto, e va benissimo! Solo che se qualche volta il cinema o la fiction popolare raccontassero in modo intelligente, spiazzante, brillante, innovativo, la scelta di chi, con convinzione, si è legato a Dio per sempre – specie in un momento delicato come questo – sarebbe un omaggio ai tanti consacrati che nella realtà di ogni giorno credono in questa missione, offrendosi al prossimo in modo commovente, regalandogli speranze e conforto senza chiedere nulla in cambio.