Basta con le paghe da Paperoni. Una proposta di legge popolare

Lo ha deciso la Svizzera con un referendum. Perché in Italia è così difficile? Pubblichiamo la prima parte dell'ntervista a Giulio Romani, presidente del sindacato bancari della Cisl
Banconote da 500 euro

In Svizzera ci ha pensato un produttore di dentifrici a promuovere un referendum vittorioso che ha messo un tetto alle retribuzioni dei manager. Nel Paese della grande finanza e della democrazia diretta ha vinto, come si può leggere nell’intervista di cittanuova.it all’economista svizzero Luca Crivelli, una sana indignazione assieme alla considerazione dell’evidente inutilità dei compensi astronomici che finiscono, anzi, per danneggiare le imprese invece di aiutarle.

E in Italia cosa accade? Secondo la recentissima indagine de “Il Sole 24 ore” sui redditi 2012 relativi alle posizioni di vertice delle società quotate in Borsa, il primo posto lo conquista Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat che, tra l’altro risiede in Svizzera, con 47,9 milioni di euro al lordo delle imposte. Di numeri siamo pieni e non sappiamo interpretarli, dice uno studio del Censis, ma queste notizie circolano da tempo come dimostra la diffusione, a suo tempo, del libro di Gianni Dragoni, giornalista de Il Sole 24 ore, “Una paga da padroni”.

Di fronte al mugugno impotente dei più, ci prova la Fiba, il sindacato dei bancari della Cisl, a promuovere una legge popolare rivolta a ridurre uno dei casi più eclatanti di ineguaglianza facendo notare la sproporzione tra direttori e amministratori delegati degli istituti di credito e la figura contrattuale media del settore. Anche la Fiba cita nomi e cognomi dei cosiddetti supermanager di Unicredit, Banca Intesa, Generali e così via, ai quali bastano pochi giorni per mettersi in tasca la retribuzione annuale di un loro impiegato, per tacere degli esodi forzati e della precarizzazione crescente che coinvolge una categoria di lavoratori considerati finora privilegiati.

L’intervista con il nuovo presidente della Fiba Cisl, Giulio Romani, a pochi giorni dal lancio dell’ iniziativa, è l’occasione per affrontare alcuni punti significativi del sistema di potere in Italia e della complessità della società civile che si appresta ad affrontare un autunno molto difficile.

Grazie all’organizzazione sindacale non avrete certo difficoltà a trovare le firme per presentare la proposta. Ma che tipo di appoggio popolare contate di raggiungere? Quali altre realtà sostengono la finalità dell’iniziativa?
«La nostra iniziativa parte dal basso per scelta ragionata, dai luoghi di lavoro e dalle piazze (siamo presenti con i nostri gazebo, banchetti e postazioni mobili in tutti i municipi del paese) per incontrarci con i lavoratori e i cittadini, accogliendo quella forte esigenza di contrasto e di lotta ai privilegi e disuguaglianze a cui il nostro paese sembra essere da troppo tempo abituato. Abbiamo il sostegno del mondo cattolico, Acli in testa e, trasversalmente, di esponenti delle istituzioni e dei partiti, molti dei quali hanno firmato ai nostri banchetti. C’è stato anche l’annuncio di adesione di politici a livello nazionale, ma sappiamo che entrano in gioco altre logiche. Non ci interessa la bandiera di alcun partito, la nostra è un’istanza della cittadinanza, del mondo del lavoro, della società».

Come mai, a vostro giudizio, la forte ineguaglianza nelle retribuzioni non genera un vero moto di protesta? Abbiamo assimilato l’idea che non si può cambiare nulla del presente sistema di relazioni di forza?
«Il manager, che è l’uomo del capitale con retribuzioni esagerate, è all’apice di un sistema di ‘dissipazione’ della ricchezza collettiva che non è più compatibile con un assetto democratico della società. Il libero mercato non è un mercato anarchico, ma un mercato regolato per far sì che l’impresa sia funzionale alla crescita del tessuto sociale che in quel mercato vive. Quando lo squilibrio distributivo assume proporzioni come quelle attuali ci troviamo di fronte a un feudalesimo di ritorno. A una regressione vera e propria verso gli assetti tipici delle grandi monarchie. Non penso di esagerare nel sostenere che i gruppi di potere di oggi sono paragonabili a quelli che dominavano a Versailles prima della rivoluzione francese. Ma dopo c’è stata, appunto, la rivoluzione… Non sono in grado di dire se all’attuale stato di rassegnazione subentrerà, prima o poi, un vero e proprio moto di protesta, certamente qualche segnale comincia ad intravedersi».

Introdotta la legge, chi potrà farla rispettare davvero? Non rischiate di andare contro le regole del libero mercato e di allontanare le aziende estere?
«Portare il tetto fisso a 294 mila euro all’anno, come è stato già deciso nel settore pubblico, non significa comunque eliminare la garanzia di una remunerazione certa e importante alla fine di una giornata densa di impegni. Ciò che va rivista è la proporzione tra stipendio fisso e retribuzione variabile. All’estero i top manager guadagnano, in media, quanto quelli italiani, ma molto meno della metà dei loro guadagni è fissa mentre la parte restante è vincolata al raggiungimento di specifici risultati».

E cosa avviene da noi?
«I nostri, invece, concentrano i loro compensi tutti sul fisso. Portare il ‘variabile’ in un rapporto di 1 a 1 con il ‘fisso’, come suggerito dall’Unione europea, comporterà per i capitani d’azienda degli altri stati membri, una grande diminuzione retributiva. Viceversa, se non interverremo in tempo a ridurre la quota fissa dei nostri top manager essi continueranno ad avvantaggiarsi di consistenti incrementi retributivi. Il bonus extra, dunque, va rigorosamente agganciato alla parte variabile del compenso e non a quella di base. Non può essere diversamente, altrimenti scatta il sospetto che la buonuscita sia servita a coprire altre manovre, ovvero il silenzio tra chi esce e chi subentra nella plancia di comando di un’azienda. In quest’ultimo senso i bonus non ci piacciono e non li condividiamo. Qualcuno obbietta: ma se facciamo questa legge rischiamo la fuga dei nostri migliori cervelli all’estero. Non è così perché, come detto, al di fuori dei confini nazionali gran parte dei guadagni viene parametrata al merito effettivo. Chi espatria oggi deve necessariamente giocarsela con i risultati e senza il paracadute di un incasso sicuro».

(Prima parte – continua)

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