Basket azzurro, malato di professionismo
Per Carlo Recalcati, coach azzurro, l’obiettivo è uno solo: “La qualificazione alle Olimpiadi!”. Dei cinque posti a disposizione delle squadre europee, due sono già assegnati: alla Grecia, paese ospitante, ed alla Serbia, campione mondiale. Sulla strada per Atene gli avversari si chiamano anzitutto Francia e Slovenia, inserite nel nostro girone. “Due quadre molto competitive – precisa Recalcati -, squadre che possono contare su giocatori che provengono dal basket professionistico americano”. Per l’Europeo le squadre favorite sono Serbia e Spagna. Con che squadra ci presentiamo in Svezia? “È un gruppo estremamente eterogeneo: il basket italiano soffre in questo momento di una crisi nel ricambio generazionale: mancano alcuni “anziani”, ma non è comunque un gruppo giovanissimo, dato che ci sono giocatori che hanno già disputato europei ed Olimpiadi. Gli altri sono frutto di un lavoro di due anni, non giovanissimi, ma con ridotta esperienza in campo internazionale. Quasi tutte le altre nazionali avranno giocatori di grande talento che provengono dal mondo professionistico americano: noi questi giocatori non li abbiamo e quindi dobbiamo cercare di essere migliori degli altri dal punto di vista del gruppo, della squadra. Per tutti è comunque un momento nuovo con nuove responsabilità “. Il colloquio con Recalcati non può sfuggire al tema della profonda crisi di identità in cui versa la pallacanestro in Italia. “Non disponendo di un numero sufficiente di giocatori italiani, subiamo una invasione di giocatori stranieri, comunitari ed extracomunitari: molte squadre da una stagione all’altra cambiano completamente fisionomia, a volte anche nel corso del campionato stesso e questo allontana i tifosi che ne sono disorientati venendo loro a mancare i punti di riferimento, le bandiere come si suol dire”. Che ripercussione ha questo fatto a livello giovanile? “Il basket italiano ha commesso dieci anni fa un clamoroso errore nel momento in cui ha deciso di entrare nella legge 91, quindi nel mondo professionistico, una scelta che altri sport, come ad esem- pio la pallavolo, non hanno mai fatto. Questa scelta ha fatto sì che quasi tutte le maggiori società perdessero l’interesse per il settore giovanile: perché una società dovrebbe investire tempo e denaro per giocatori che a 18 anni o firmano un contratto o se ne vanno dove li pagano meglio? La conseguenza è che dal minibasket al 18esimo anno di età perdiamo il 50 per cento dei tesserati: l’ottimo reclutamento realizzato da tante piccole società non offre sbocchi ai buoni giocatori di 15-16 anni i quali hanno davvero poche possibilità di poter arrivare al basket professionistico. Rimane poi il problema dello sport scolastico, comune ad altre discipline: in più il basket soffre del fatto di vedersi preferito a livello scolastico da discipline più facili, con meno contatto e quindi meno rischi “. La recente esclusione della Virtus, la “Juventus del basket”, dal campionato di serie A per motivi finanziari ha fatto tanto clamore”. “Ma non dimentichiamoci che nel basket hanno in questi anni subito la stessa sorte, per fallimento, Reggio Calabria, Verona, Caserta, Montecatini. Sono sempre state situazioni traumatiche, che testimoniano come si viva in una realtà sovradimensionata rispetto alle potenzialità ed alle possibilità economiche. E che avremmo bisogno di regole gestionali più precise, certe e soprattutto di più rispetto delle stesse”. Lei ha un passato importante come giocatore: in 30 anni che cosa è cambiato nel basket? “Si è voluta ampliare la geografia del basket, e questo è un fatto positivo, ma è anche vero che i recenti casi testimoniano che le società professionistiche sono troppe in rapporto all’enorme difficoltà a gestirle. Quando giocavo le squadre erano 12, e non si potevano nemmeno chiamare professionistiche: oggi ne abbiamo addirittura 32. Negli Usa, una nazione con un numero quadruplo di giocatori rispetto ai nostri, ci sono 30 squadre professionistiche: perché noi dovremmo permettercene 32? È cambiato poi molto sul piano del gioco: oggi il basket è diventato uno sport di grande contatto fisico, rendendo fondamentale l’importanza delle qualità fisiche- atletiche, oltre che la statura, nel complesso si è perso qualcosa dal punto di vista tecnico”. Che significa dunque oggi guidare una squadra nazionale? “Siamo di fronte ad un sostanziale cambiamento di regole nell’abito della Federazione Internazionale: le nazionali sono state messe in un cantuccio. Prima l’attività delle nazionale si svolgeva su tutto l’anno compatibilmente con gli impegni di club; oggi tale attività è relegata solo al periodo estivo, il che significa, ad esempio, che nel prossimo anno alcune nazionali saranno impegnate a prepararsi per le Olimpiadi e le altre resteranno nell’ombra. E questo è un grosso danno per tutto il movimento, perché quando va in campo la nazionale si accende l’interesse di tutti, non solo quello dei tifosi di pallacanestro. Questo è pericoloso e negativo in un momento in cui avemmo bisogno di una maggiore visibilità e di una immagine migliore”.