Baseball, integrazione e festa popolare
Lo sport è stato ospite di eccezione nel menù estivo: europei di calcio e poi olimpiadi a Londra. Nel caldo torrido di questa estate abbiamo visto e seguito eventi che fanno parte delle nostre domeniche, il calcio, ma anche sport pressoché sconosciuti, che ci hanno portato in cima al mondo, primo fra tutti il taekwondo, ma anche tiro con l’arco e vari armi: fioretto e pistole. Non sono mancati i soliti ingredienti italici: polemiche, scandali ed anche scontri e strascichi tutt’altro che sportivi. Sport tormentone per l’Italia e non solo, capace di spaccare un Paese in due o di ricucirlo, fonte di tensioni e luogo dove si possono scaricare energie e frustrazioni. Ma forse anche punto privilegiato di integrazione.
Proprio mentre a Londra calava il sipario sui giochi, mi sono trovato al Rogers Centre di Toronto, lo stadio del baseball della metropoli canadese, situato in down town, non lontano dalla Union Station nel quartiere commerciale sotto la celeberrima CN tower, ormai emblema della metropoli canadese. Si tratta di un gioiello con terreno in sintetico, cinquantamila posti a sedere, possibilità di copertura, come domenica, in caso di pioggia. Di scena un classico da sogno: Blue Bays, la squadra di casa, contro i New York Yankees, un mito della League nord Americana del baseball.
Lo spettacolo è andato in onda alle 13 di domenica 12 agosto: davanti a quaranta quattromila spettatori. I presenti rappresentavano un vero spaccato della società che popola città nord americana: tifosi, certo, ma anche famiglie, genitori con bambini piccoli, alcuni sulle spalle dei papà, altri portati nel marsupio dalla mamma, persone con difficoltà motorie, alcuni su carrozzelle, altri con deambulatore. E poi, ancora, un caleidoscopio di etnie: asiatici e, fra questi, medio-orientali, indiani e singalesi, thai, cinesi, filippini, molti i coreani e latinos. Non mancavano afro-americani. C’erano ministri di diverse chiese cristiane, non pochi ebrei con la kippahah sulla testa. Uno scozzese, almeno di origini, in perfetta tenuta, suonava la zampogna nei pressi delle varie entrate dello stadio. Tre simpatici settantenni, invece, facevano la loro parte all’interno del complesso, con musica jazz.
Molti sono arrivati con lattine di birra, ma nessuno minimamente alterato. Ai margini e all’interno si vende di tutto: cappellini e magliette dei Blue Jays, ma anche quadri, chincaglieria e, ovviamente, hotdog di tutte le dimensioni, di tutti i tipi e con le salse più svariate e dai colori più sgargianti. Le code di accesso sono veloci, mai più di 10 persone in fila. Controllo stretto di borse e zainetti, sempre gentilissimo e senza il minimo segno di tensione. Quando si passa dai tornelli e si smagnetizza il biglietto, la hostess sorride e augura: enjoy the game – goditi la partita.
Verso le 13, dopo la preparazione del campo, tutto in sintetico e la presentazione del team dei ragazzi del Blue Jays che rappresenteranno Toronto ad un torneo di parità negli USA, tutti si alzano in piedi. Gli inni nazionali. Grande rispetto per quello americano, totale partecipazione per quello canadese: tutti lo cantano.
Comincia la partita: nove innings. Si partecipa sgranocchiando pop-corns che arrivano in sacchetti giganti, mangiando hot-dogs, chiaccherando con il vicino: il Rogers Centre è un punto di incontro di socializzazione e, soprattutto, di integrazioni di etnie, lingue, gruppi. I primi innings sono tranquilli, nessuna delle due squadre riesce a completare la corsa di un giro del diamante. Le decisioni degli arbitri sugli strikes o gli out, aspetti decisivi del baseball, non sono mai contestate.
Quanto successo a Pechino fra Juve e Napoli è distante anni luce!!!
La partita si accende verso il quarto inning quando con delle ottime battute ed un fuori campo i Blue Jays accumulano un ottimo vantaggio, sette a zero. Poi lentamente, negli inning successivi, assistiamo al ritorno del team americano. Arriviamo sul sette a dieci. I Blue Jays devono tenere negli ultimi due innings. Non è facile, ma ce la fanno. Alla fine tutti in piedi ad applaudire il proprio team, ma nessuna offesa per i perdenti e nemmeno per i loro tifosi, venuti allo stadio con cappellini e magliette dei Yenkees e mescolati con i fans del team avversario, senza alcun timore di scontri.
Finisce la partita, ci avviamo – 44 mila persone – verso le uscite: calma, ordine, educazione. Il flusso verso l’esterno è spedito ed ordinato. Nel giro di 10 minuti siamo fuori e in 15 minuti arriviamo alla metropolitana. Anche qui, grande folla, ma nessuna spinta, nessun caos. Arriva il treno, saliamo. I fans si mescolano a chi è stato altrove in una domenica di fine estate canadese.
Più che una partita di baseball ho l’impressione di avere visto in diretta come si realizza il processo di integrazione, ovviamente, anche grazie al baseball!