Bartolomé de las Casas

Il frate domenicano, vescovo del Chiapas e protettore degli Indios, incompreso ed emarginato nel suo tempo, profeta dell'uguaglianza dei popoli e iniziatore del diritto internazionale.
Bartolomé de las Casas

“Nella Sua bontà e misericordia, Dio considerò giusto scegliermi come suo ministro, pur indegno, perché perorassi la causa di tutti quei popoli delle Indie, possessori di quei reami e di quelle terre, contro torti e ingiurie mai visti o uditi prima, ricevuti dai nostri Spagnoli…, e per ripristinarli nella loro primitiva libertà, della quale furono ingiustamente privati…

E io ho faticato nel tribunale dei re di Castiglia, facendo avanti e indietro tante volte dalle Indie alla Castiglia e dalla Castiglia alle Indie, per circa cinquant’anni, dall’anno 1514, solo per il mio amore per Dio e per la compassione che provavo nel veder perire tante moltitudini di uomini razionali, affabili, umili, esseri mitissimi e semplicissimi, ben adatti a ricevere la nostra fede cattolica… e ad essere muniti di tutti i buoni costumi”1.

Sono queste alcune espressioni autobiografiche del frate domenicano Bartolomé de Las Casas (1474-1566), la cui vita ed opera sono indissolubilmente legate al processo di conquista e colonizzazione del cosiddetto Nuovo Mondo.

Ne presentiamo alcuni tratti, in considerazione del rapporto tra Vangelo e cultura in genere, e del dialogo tra le culture2. 

Un personaggio poliedrico 

La lunga ed operosa esistenza di B. de Las Casas fu quasi interamente dedicata alla causa dei popoli del Nuovo Mondo, alla denuncia degli abusi e dei crimini che contro di essi si compivano, alla critica sempre più radicale non solo dei metodi, ma anche dei presupposti e della legittimità della conquista e dell’elaborazione di leggi e di esperienze concrete che evitassero il genocidio e rispettassero la dignità e l’umanità degli indios.

La recente edizione in Spagna delle sue Opere Complete, in 14 volumi (Alianza Editorial, Madrid 1998), permette oggi di meglio comprendere la vastità e la profondità dei temi trattati dal frate domenicano, personaggio più famoso che letto, e la cui fama è sempre stata legata solo ad un’unica opera, la Brevissima relazione della distruzione delle Indie, testo che alimentò la famosa leggenda nera e divenne un vero best seller della modernità, fin dalla sua prima edizione della fine del Cinquecento.

Egli, con grande sensibilità che oggi diremmo “interculturale”, trascrisse i diari di bordo di Cristoforo Colombo, redasse la Storia delle Indie, rifletté sui metodi di evangelizzazione (De unico vocationis modo), descrisse con attenzione gli usi e costumi dei popoli indigeni (la Apologetica Historia), trattò questioni giuridiche (Tractado comprobatorio) e politiche (De Regia Potestate), intervenne sui principi filosofici e teologici relativi alla natura umana degli indios.

Egli è inoltre colui che maggiormente riporta nei suoi scritti le vicende di A. de Montesinos, il frate i cui famosi sermoni avevano acceso proprio la controversia sull’identità degli indigeni.

Nei suoi interventi B. de Las Casas agisce sempre da protagonista, potendo vantare un’ampia e intensa esperienza personale, prima come partecipe delle imprese dei conquistadores e lui stesso encomendero, poi come convertito alla causa degli indios.

Egli identificava proprio nelle encomiendas una grave fonte di ingiustizia legata alla condotta degli Spagnoli nel Nuovo Mondo: “A un encomendero veniva assegnato un gruppo di Indios: il suo lavoro consisteva nel proteggerli e nel fornirli di istruzione religiosa. In cambio, gli indigeni della sua encomienda dovevano pagare un tributo all’encomendero. In origine l’encomienda non prevedeva una concessione di sovranità politica sugli indigeni, ma in pratica ciò avveniva spesso e il tributo richiesto era imposto troppo spesso con la forza.

Avendo egli stesso un tempo posseduto una encomienda, Las Casas conosceva per esperienza diretta le ingiustizie e gli abusi del sistema, e si adoperò con un certo successo per porre fine a quello che considerava un male molto grave”3.

B. de Las Casas fu instancabile e coraggioso: per difendere la sua causa – e cioè la causa della sopravvivenza degli indios americani – egli attraversò per ben dieci volte l’Oceano Atlantico superando rischi mortali e fatiche non comuni.

Fu il primo a documentare e denunciare con autentica passione evangelica un genocidio che nel corso di settant’anni portò, direttamente o indirettamente, alla morte di circa 30 milioni di persone.

Per questo il frate domenicano non ha mai goduto di buona fama tra i suoi connazionali, e venne utilizzato dagli oppositori della Spagna in funzione anticattolica e antispagnola.

Di lui si ricorda il famoso dibattito sostenuto con J. Ginés de Sepulveda, filosofo e teologo che si era battuto energicamente a favore dell’uso della forza con gli indigeni, nella prospettiva di conquistarli alla Chiesa.

Per B. de Las Casas, che sosteneva ovviamente l’attività missionaria, gli indigeni dovevano però “essere attratti gentilmente, in sintonia con la dottrina di Cristo”4 e questo processo non poteva avvenire se non in modo pacifico.

Sepúlveda, preoccupato anzitutto della questione fondamentale se si potesse dimostrare teoreticamente che una guerra contro gli indios fosse giusta, affermava che il basso livello di civilizzazione e le pratiche barbariche dei nativi erano un ostacolo all’evangelizzazione e per questo era necessario un qualche genere di tutela spagnola prima che il processo di evangelizzazione potesse procedere in modo più serio.

De Las Casas, invece, era convinto anzitutto che le guerre sarebbero state disastrose per le persone coinvolte e nello stesso tempo assai dannose alla stessa diffusione del Vangelo e che la fredda speculazione accademica sull’argomento della legittimità della guerra, di fronte ad una situazione così complessa e così drammatica come quella americana, sarebbe stata “irresponsabile, frivola e scioccante”5.

Nel 1547, dopo oltre trent’anni di “militanza evangelica” nel Nuovo Mondo, B. de Las Casas fu costretto ad abbandonare la Diocesi di Chiapas, di cui era stato nominato Vescovo quattro anni prima, per rifugiarsi in Spagna nel Convento di Atocha (Madrid), per restarvi oltre vent’anni, sino alla morte, senza più poter mettere piede in America.

Egli, particolarmente avversato dai coloni, cui osava anche negare l’assoluzione qualora non avessero rifiutato di continuare ad essere degli encomenderos, fu dipinto ora come un fanatico e uno psicopatico, ora come un santo e un profeta.

Fu definito l’ultimo comunero, cioè difensore delle autonomie locali contro l’assolutismo, o come un antesignano dei moderni diritti dell’uomo.

Alcuni hanno ravvisato nel suo pensiero una concezione democratica del potere e dell’autodeterminazione dei popoli e lo hanno definito un Rousseau avant la lettre; i movimenti di liberazione latinoamericani hanno visto in lui un precursore della teologia della liberazione e della lotta per la giustizia in America Latina.

Proprio lì egli continua ad essere particolarmente ricordato e ammirato per il suo coraggio e il suo impegno instancabile per affermare, grazie alla sua fede cattolica, che un solo codice di moralità lega tutti gli uomini.

Grazie a questa convinzione egli poté giudicare la condotta della sua società con spirito di stretta imparzialità: “Las Casas ha avuto la fortuna di non finire nelle mani dell’Inquisizione spagnola, anche se, comunque, dopo la pubblicazione nel 1552 di alcuni suoi trattati, gli scritti di Las Casas furono messi all’indice in Spagna e fu ordinata la requisizione di quelli che circolavano nelle Indie.

Qualche anno dopo, in compenso, Las Casas ebbe un riconoscimento di altissimo valore morale. Nel luglio del 1559 i caciques più rappresentativi di varie regioni del Perù nominarono formalmente Las Casas come loro procuratore davanti al re e al Papa, perché difendesse la tesi – da lui sempre sostenuta… – che le encomiendas restassero in possesso della corona di Spagna e non venissero concesse ai coloni. Con il documento di nomina da parte dei caciques Las Casas diventò, anche legalmente, il Protector de los indios, appellativo con cui è passato alla storia”6. 

La fede non si impone 

B. de Las Casas, come detto, si impegnò costantemente attraverso la scrittura, la predicazione e l’impegno politico, alla causa degli indigeni per mezzo secolo della sua vita, cercando anzitutto di promuovere riforme al modo con cui i nativi venivano trattati e soprattutto prendendo posizione contro i gravi abusi che si compivano verso di loro.

Egli reagì con tutte le sue forze di fronte alla pratica del requerimiento che dal 1513 i comandanti delle milizie spagnole adottavano. Esso consisteva nel leggere ai capi indios, naturalmente in spagnolo, un documento e poi si iniziava l’attacco militare.

Il testo si apriva con una breve storia della creazione del mondo e conteneva il seguente annuncio: “con l’aiuto di Dio, io mi metterò poderosamente contro di voi e vi farò guerra in tutti i luoghi e in tutti i modi con cui potrò, e vi sottometterò al giogo e all’obbedienza della Chiesa e alle loro Altezze. E prenderò le vostre persone, le vostre mogli e figli e li farò schiavi. E li venderò come tali e ne disporrò come le loro Altezze comanderanno.

Prenderò i vostri beni, e vi farò tutto il male e tutto il danno che potrò, in quanto vassalli che non obbediscono e non vogliono ricevere il loro signore, resistendogli e andandogli contro. E dichiaro che sarete voi i responsabili delle morti e dei danni che così verranno provocati”7.

Il documento del requerimiento richiamava inoltre l’istituzione della Chiesa cattolica, il potere universale e supremo del Romano Pontefice e il dono da parte di Papa Alessandro VI delle terre americane ai sovrani di Spagna.

In questo clima di cattolicesimo così coinvolto nella logica bellicista della conquista imperiale, nel quale si invitavano gli indios a riconoscere la signoria dei re spagnoli e a convertirsi alla fede cattolica, attaccandoli qualora non lo facessero, B. de Las Casas fu effettivamente una vox clamans in deserto pronta a tessere gli elogi degli indigeni e della loro cultura, richiamandosi direttamente al Vangelo, e in base ad esso, contestando il richiamo all’autorità di Aristotele che i suoi avversari invece vantavano.

Di fronte a tutti quelli che sostenevano che gli indigeni si trovassero proprio nella situazione descritta da Aristotele a proposito degli “schiavi per natura”, B. de Las Casas affermava che era necessario su questo punto abbandonare le posizioni del filosofo greco, proprio perché “abbiamo a nostro favore il comando di Cristo: amate il prossimo vostro come voi stessi…; benché Aristotele fosse un grande filosofo, il solo studio non lo rese degno di raggiungere Dio”8.

Il frate domenicano, la cui dottrina sembra essere stata profondamente influenzata anche dalle riflessioni dei famosi professori domenicani dell’Università di Salamanca, affermava anzitutto la razionalità degli indigeni, ritenendo che ci sarebbe un evidente difetto nella creazione se una porzione cospicua della specie umana si fosse mostrata sprovvista di ragione: in questo, il primo che avrebbe fallito il suo piano creativo sarebbe stato proprio Dio, che chiama tutti gli uomini a Sé.

Per questo lo studioso L.H. Hanke ha potuto scrivere di B. de Las Casas che i suoi argomenti “hanno reso più forti tutti coloro che al suo tempo e nei secoli a venire hanno lavorato nel convincimento che gli abitanti del mondo sono esseri umani con le stesse potenzialità e responsabilità”9.

Il frate domenicano sostenne inoltre che l’uso della coercizione era inaccettabile sia per imporre la fede, sia “nel tentare di creare un ambiente pacifico in cui i missionari potessero svolgere il proprio lavoro, coercizione che, invece, Sepúlveda avrebbe concesso”10.

Secondo B. de Las Casas le conseguenze della guerra, sia quelle previste che quelle non previste, non avrebbero mai potuto giustificare la pretesa di portare aiuto a indigeni sofferenti: egli intese sempre mostrare che, per questo o per quel motivo, ogni guerra contro gli indigeni era ingiusta, e per questo non poteva mai esser presentata come un’opzione lecita.

Egli era convinto per questo che le misure di “pacificazione” ammesse da Sepúlveda avrebbero compromesso lo stesso sforzo missionario, poiché la presenza di uomini armati avrebbe disposto le volontà e gli intelletti degli indigeni contro tutti gli “invasori”, compresi i missionari11.

Ai missionari era dunque chiesto, secondo il frate domenicano, di svolgere il loro lavoro “con parole gentili e divine e con esempi e opere di vita santa”, nella convinzione che “gli indiani potessero essere fatti parte della civiltà cristiana attraverso uno sforzo continuo e onesto, e che il loro asservimento o qualsiasi altra coercizione sarebbe stata tanto ingiusta quanto controproducente. Solo l’interazione pacifica avrebbe assicurato la sincerità di cuore tra coloro che avrebbero deciso di convertirsi”12.

Fu questo il motivo per cui diversi missionari non amarono e anzi osteggiarono fortemente B. de Las Casas, proprio a causa delle sue critiche al loro modo di battezzare gli indios, specie laddove essi “praticavano il battesimo di massa e vantavano di aver ‘salvato’ 4 milioni di anime in una dozzina di anni, fra il 1524 e il 1536. Il record era stato raggiunto a Xochimilco, dove… erano riusciti a battezzare in un solo giorno 15 mila indios, versando grandi quantità d’acqua sulle loro teste senza preoccuparsi di trasmettere loro una minima consapevolezza del significato del gesto”13.

Assai interessante ed attuale, infine, segnalare la posizione di Las Casas, ancora più radicale di quella di F. de Vitoria, a proposito del concetto di guerra giusta: “Las Casas esclude la nozione di bellum justum, purchè non si riferisca alla resistenza di un popolo aggredito. E da questo punto di vista – afferma D. Zolo – egli non ha alcun dubbio: la sola guerra giusta – anzi “giustissima” – è quella cui sono stati costretti gli indios.

Al contrario, i cristiani non hanno mai condotto una guerra giusta contro gli indigeni: le loro guerre sono state ‘diaboliche e ingiustissime’. Un popolo, scrive Las Casas nella sua Apología, con un linguaggio sorprendentemente moderno, ha diritto ad avere un suo governante e non esiste alcun motivo perché un altro popolo, con il pretesto della sua superiore cultura, lo attacchi e lo distrugga”14.

Il frate domenicano, da questo punto di vista, è assai chiaro: “qualsiasi popolo, per quanto barbaro possa essere, si può difendere dai popoli ‘superiori’ che vogliono sottometterlo e privarlo della libertà, e a maggior ragione potrà punire ‘i più sapienti’ uccidendoli come selvaggi e violenti trasgressori della legge di natura. E questa guerra sarà certamente più giusta di quella che, con il pretesto della superiorità, si conduce contro di essi”15. 

Inizia il diritto internazionale 

La vicenda personale di B. de Las Casas si situa dunque in modo emblematico, nel Cinquecento, in un punto “cruciale” della nostra storia e dell’incontro tra due diverse culture, in un momento nel quale i resoconti di maltrattamenti da parte degli Spagnoli sugli indigeni del Nuovo Mondo produssero una grave crisi di coscienza tra gruppi considerevoli della stessa popolazione spagnola, non ultimi i filosofi e i teologi.

Fu grazie a quella riflessione che ebbe inizio il diritto moderno internazionale, perché la controversia sugli indigeni americani fornì un’opportunità ancora inedita per il chiarimento di principi generali che gli Stati erano tenuti, moralmente, a osservare nelle loro relazioni reciproche.

I teologi spagnoli del Cinquecento, tra i quali F. de Vitoria, M. Cano, D. de Soto e altri, ispiratori – pur con le necessarie distinzioni – “posero la condotta della propria civiltà sotto acuta osservazione e la trovarono insufficiente. Proposero – scrive a proposito T.E. Woods – che in questioni di diritto naturale gli altri popoli del mondo fossero uguali a sé, e che le nazioni dei popoli pagani avessero diritto allo stesso trattamento che le nazioni dell’Europa cristiana riconoscevano l’una all’altra.

Che i sacerdoti cattolici dessero alla civiltà occidentale gli strumenti filosofici con cui avvicinarsi a popoli non occidentali in uno spirito di uguaglianza è un fatto piuttosto straordinario…

La concezione cattolica dell’unità fondamentale della specie umana… informava le deliberazioni dei grandi teologi spagnoli del Cinquecento, che insistettero sui principi universali che devono regolare l’interazione degli stati. E perciò grazie agli strumenti morali forniti dai teologi cattolici della stessa Spagna che possiamo criticare gli abusi compiuti dagli spagnoli nel Nuovo Mondo”16.

In questa prospettiva essi non mancarono di lasciar misurare la loro stessa cultura e prassi dalla rivelazione cristiana e da una razionalità naturale ad essa ispirata, svolgendo un servizio che va oltre la loro stessa vicenda umana.

B. de Las Casas per questo, al di là di quelli che possono essere gli innegabili limiti della sua stessa figura e di alcune sue posizioni, risulta essere un testimone emblematico di questa rivoluzionaria apertura realizzata nell’ambito dell’interazione tra europei e indigeni.

Non a caso il romanziere peruviano M. Vargas Llosa, ricordando il frate domenicano, scrisse che “Padre Las Casas fu il più attivo, per quanto non il solo, di quei nonconformisti che si ribellarono agli abusi inflitti agli indiani. Questi uomini lottarono contro i propri connazionali e contro le politiche del proprio paese in nome del principio morale che per loro era più alto di qualsiasi principio di nazione o stato. Questa auto-determinazione non sarebbe stata possibile tra gli Incas o alcun’altra cultura pre-ispanica.

In queste culture, come nelle altre grandi civiltà della storia che non siano quella occidentale, l’individuo non poteva mettere in discussione da un punto di vista etico l’organismo sociale di cui faceva parte, perché esisteva solo come un atomo integrante di quell’organismo e perché per lui i dettami dello stato non potevano essere separati dalla moralità.

La prima cultura che si interrogò e si mise in discussione, la prima che ruppe le masse trasformandole in esseri individuali che con il tempo gradualmente guadagnarono il diritto a pensare e ad agire in modo autonomo, sarebbe diventata, grazie a quell’esercizio sconosciuto, la più potente civiltà del mondo”.17

B. de Las Casas testimonia così una sorprendente capacità empatica che “assumeva il punto di vista degli ‘altri’ e tentava di accogliere la loro diversità anche se per lui era moralmente inaccettabile. Con questo atteggiamento Las Casas inaugura un approccio multiculturale e ‘relativistico’ alla diversità degli ‘infedeli’ che non ha precedenti nella cultura occidentale.

Questo è sicuramente l’aspetto più singolare della personalità intellettuale e della sensibilità umana di Las Casas, che gli ha consentito di penetrare nell’universo simbolico degli indios cogliendone la razionalità, i valori e la semantica spirituale”18.

Anche in questo mostra un’attualità straordinaria.

 

NOTE

 

1 Cf. B. De Las Casas, Testamento, citato in C. Watner, “All Mankind is One”. The Libertarian Tradition in Sixteenth Century Spain, in Journal of Libertarian Studies 8 (1987) 303-304.Per quanto riguarda le fonti, cf. Bartolomé de Las Casas – Juan Ginés de Sepulveda, La controversia sugli indios (a cura di S. Di Liso), Edizioni di Pagina, Bari 2007.

2 Per approfondire, cf. anche G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573). “Veri domini” o “servi a natura”, Divus Thomas 33 (2002/3) 5-258; Id., Interpretazioni del dibattito sul Nuovo Mondo, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti 164 (2005-2006) 547-585; Id., Introduzione, in B. De Las Casas, De Regia Potestate, a cura di G. Tosi, Laterza, Bari 2007, pp. XV-LXVIII; Id., Bartolomé de Las Casas y la guerra justa de loso indios, in I. Murillo Murillo (ed.), El pensamiento hispánico en America. Siglos XVI-XX, Publicaciones de la Universidad Pontificia de Salamanca, Salamanca 2007, pp. 639-649; R. Hernández Martín, Personalidad teológico-jurídica de Bartolomé de Las Casas, in Ciencia Tomista 1 (2007) 77-97; N. Martínez Morán, Filosofía y compromiso personal de Fray Bartolomé de Las Casas, in I. Murillo Murillo (ed.), El pensamiento hispánico…, op. cit., pp. 461-488.

3 T.E. Woods, Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale, Cantagalli, Siena 2007, pp. 153-154.

4 Cf. E. Andújar, Bartolomé de las Casas and Juan Ginés de Sepúlveda: Moral Theory versus Political Philosophy, in K. White (ed.), Hispanic Philosophy in the Age of Discovery, The Catholic University of America Press, Washington 1997, p. 76.

5 Cf. R. Alvira – A. Cruz, The Controversy between Las Casas and Sepúlveda at Valladolid, in K. White (ed.), Hispanic Philosophy…, cit., p. 93.

6 D. Zolo, Il multiculturalismo pacifista di Las Casas, in B. De Las Casas, De Regia Potestate, cit., p. IX.

7 G. Tosi, La teoria della schiavitù naturale…, cit., p. 244.

8 Cf. E. Andújar, Bartolomé de las Casas…, cit., p. 78.

9 Cf. L.H. Hanke, Bartolomé de las Casas. An Interpretation of His Life and Writings, Martinus Nijhoff, The Hague 1951, p. 87.

10 T.E. Woods, op. cit., p. 252.

11 Cf. R. Alvira – A. Cruz, The Controversy…, op. cit., pp. 93-95; E. Andújar, Bartolomé de las Casas…, op. cit., p. 84.

12 T.E. Woods, op. cit., p. 153.

13 D. Zolo, op. cit., p. VII.

14 Ibidem, pp. XII-XIII. Cf. B. de las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, Mondadori, Milano 1991, p. 32.

15 Cf. B. de las Casas, Apología, in Id., Obras Completas, Alianza Editorial, Madrid 1992-1998, vol. IX, pp. 113-114.

16 T.E. Woods, op. cit., pp. 157-158.

17 Cf. M. Vargas LLosa, cit. in R.C. Royal, Columbus on Trial: 1492 v. 1992, Young America’s Foundation, Herndon 1993, pp. 23-24.

18 D. Zolo, op. cit., pp. X-XI. Cf. anche T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1984, pp. 225-235, 297-309.

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