Barachetti, lavoro e centralità della persona

Lavoro e occupazione giovanile. Le proposte concrete da mettere in pratica per superare gli errori del passato e uscire dalla crisi. Il parere di Corrado Ezio Barachetti, coordinatore nazionale Mercato del Lavoro della Cgil. Tutti gli interventi nel focus
Lavoro precario Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Lavoro. Perché, pur essendo sempre di meno, i giovani italiani hanno difficoltà a trovare lavoro? La domanda è semplice ma la risposta non è tale e soprattutto esistono diverse letture della questione che non può essere spiegata e soprattutto compresa solo con numeri e statistiche. Nel percorso dell’inchiesta sul lavoro nell’anno 2021 è importante perciò sentire Corrado Ezio Barachetti, coordinatore nazionale Mercato del Lavoro della Cgil.

L’Italia registra un progressivo calo demografico ed esiste un alto livello di disoccupazione e inoccupazione giovanile. Come si spiega tale paradosso?
Io non collegherei direttamente la continua decrescita quantitativa della popolazione giovanile, fino a paventare il rischio del gelo demografico con il tasso della sua disoccupazione o inoccupazione.
Il calo demografico attiene più a ragioni culturali e in particolar modo a ragioni di ordine sociale e di scarsa attenzione alle politiche di genere, mentre i bassi livelli di occupazione afferiscono più ad un mercato del lavoro con la scarsa predisposizione per le politiche occupazionali giovanili e ad uno scarso allineamento dei loro saperi con i bisogni della domanda di mercato.
Il dato della disoccupazione giovanile, under 25, mentre in zona euro è pari al 18,4, in Italia vale il 29,5. Siamo i terzultimi in Europa benché nel nostro Paese continui l’incremento dei giovani laureati iniziato nel 2014. In Italia il 27,7% dei giovani fra i 24 e 34 possiede una laurea, dato quest’ultimo che ci colloca in ogni caso al penultimo posto rispetto alla media UE del 40,8. Dopo di noi solo la Romania.

Come si può rimediare?
Occorrono correttivi per favorire la partecipazione ai percorsi universitari, tra questi l’abolizione di ogni numero chiuso di facoltà, un sensibile alleggerimento delle tasse universitarie con aperture di crediti per le famiglie meno abbienti e infine, occorre un importante intervento sulle borse di studio oggi troppo poche e dall’importo irrilevante.
Si parla molto di un disallineamento tra domanda e offerta con particolare riferimento agli under 28 e il nostro Paese, purtroppo, si conferma quale terzo al mondo dopo Stati Uniti e Messico e in compagnia di Svezia, Finlandia noti Paesi all’avanguardia nei servizi per il lavoro.
Le imprese in Italia hanno bisogno di figure professionali che per il 47% dei casi non riesce a reclutare con le giuste competenze, un dato che raggiunge l’84% nelle organizzazioni con più di 250 occupati.

Come si può colmare questo divario?
Colmare questo divario non è semplice, ciò in quanto molte delle figure professionali che non si trovano sono di ordine tecnico e professionale e non di alto livello e queste, quando invece lo sono, spesso richiedono oltre che significative esperienze il possesso di specifiche specializzazioni di nicchia in molti casi fuori dalla portata degli atenei.
Non secondario è anche la condizione delle nostre attività economiche, le quali per il 95% è rappresentato da aziende con meno di 10 dipendenti, le quali vivendo un’economia dal fiato corto e con produzione fortemente frammentata e legata al prodotto finito e con difficoltà a differenziarlo, difficilmente può attrarre i giovani under 30 che hanno speso gran parte della loro vita in attività formative nelle quali credono.
Un ruolo determinante lo può giocare una riforma delle attuali politiche attive a patto che sia fortemente imperniata sulla “Formazione” e con un patto forte tra associazioni di impresa e organizzazioni sindacali volte a favorire l’avviamento al lavoro, ad esempio riqualificando l’esperienza dell’apprendistato.

E quali politiche attive sarebbero necessarie?
Quelle che abbiamo visto da Fornero all’ultimo Jobs Act si sono dimostrate insufficienti in quanto sostanzialmente improntate al fornire incentivi alle aziende che hanno determinato una durata dei rapporti di lavoro giusto il tempo della durata dell’incentivo.
Quando si è scelto di intervenire sulle politiche attive ritenendo fondamentale una loro riorganizzazione, vedi il d.lgs. 150/15, si è commesso un secondo errore, perché concepita e realizzata a risorse zero.
Infine, anche l’aver ritenuto che il Reddito di Cittadinanza, grazie ad un’operazione incentrata sui sussidi, potesse rappresentare la chiave di volta per una nuova occupazione, si è dimostrato un errore. L’obbligo di aderire ad una qualsiasi proposta di lavoro, pena l’eliminazione del sussidio, non solo non ha contribuito a creare nuova occupazione e in particolare giovanile, in più ha finito con legittimare la scarsa considerazione della dignità di una persona, che pur in condizione di sofferenza, ha diritto ad aspirare ad un “suo” lavoro, ad un lavoro “buono”.
È necessario allora rimettere al centro la persona e costruire un sistema pubblico capace di valorizzarla ad iniziare dalle sue capacità ma anche dalle sue aspirazioni.

Come si può concretamente realizzare tali valori?
Per poter fare quanto ho detto occorre innanzitutto:
• Mettere a compimento le 11.600 assunzioni programmate dalla Legge di bilancio 2019 per i Centri per l’Impiego;
• Far partire da subito i piani di formazione e aggiornamento degli attuali operatori in servizio;
• Dotare tutte le strutture dei necessari e indispensabili mezzi strutturali e di organizzazione in modo che si possano garantire livelli di prestazione standard di qualità per il soddisfacimento dei LEP su tutto il territorio;
• Sostenere la centralità delle performance, dei CpI e dei suoi operatori, in linea con i percorsi di efficientamento che dovrebbe riguardare tutta la PA a partire dalla determinante riforma digitale.
L’efficacia delle azioni di politica attiva passa attraverso strutture che siano messe in condizioni di lavorare in termini di vera qualità.

Esistono buone pratiche di altri Paesi replicabili da noi?
L’Italia pare abbia scelto la strada tedesca caratterizzata, grazie alla loro grande disponibilità di strutture, mezzi e uomini, da una forte organizzazione di prossimità e di stretto legame con il territorio di vicinanza, dove aziende e enti locali, per tramite di precise disposizioni di norma regionale e di governo, costituiscono una reale rete di protezione e promozione della persona.
La strada ora imboccata parrebbe essere quella giusta, ovvero quella contenuta nella recente versione ( governo Conte 2) del PNRR, new generation UE, nella Missione 5 “Inclusione e Coesione” alla componente 1 “Politiche del Lavoro”, che sostanzialmente si basa sulla riorganizzazione del sistema pubblico di cui alla precedente domanda.

È ormai predominante il sistema delle agenzie interinali private visto le difficoltà persistenti del servizio di collocamento pubblico?
Non mi pare che questa strada sia oggi predominante. Anche la stessa Confindustria che tanto esalta il lavoro delle agenzie private del lavoro, riconosce la necessità di una forte sinergia tra le strutture pubbliche e le ApL (Agenzie per il lavoro), immaginando un sistema a regia pubblica ma con la possibilità di definire convenzioni tra i due soggetti, CpI (Centri per l’Impiego)e appunto le ApL.
Del resto, risulterebbe del tutto incomprensibile aver investito più di 4 miliardi nei CpI per immaginarli soppiantati dalle ApL.
Una cosa va in ogni caso tenuta presente ed è quella che ci consegna la recente storia della riforma del collocamento, che sebbene con risultati limitati rispetto alla capacità di offerta di lavoro, il loro lavoro è sempre stato di qualità.

Non inevitabile in questa fase riconoscere al soggetto pubblico, come indicano alcuni economisti come Giovanni Dosi in Italia, un ruolo di datore di lavoro finalizzato alla crescita di settori strategici descritti nel Next Generation Ue?
Personalmente ritengo di sì, anche se ritengo impropria la definizione di datore di lavoro affidata allo Stato e alle sue strutture pubbliche.
Preferisco ragionare di un imprescindibile governo pubblico. Di uno Stato che si erge a protagonista di scelte strategiche e che si impegna a governarle con la concorrenza sia di investimenti pubblici e privati che di soggetti pubblici e privati. Mi pare che il PNRR, anche se ha solo addolcito la pratica degli incentivi, vada in questa direzione. Difficile in ogni caso dare torto a Giovanni Dosi.

Nel numero di Febbraio 2021 di Città Nuova una lunga inchiesta di analisi e proposte sulla disoccupazione giovanile.

Qui gli articoli del focus dedicato all’inchiesta sul lavoro

 

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