Bangkok. Tutte le contraddizioni delle zone a luci rosse
La Thailandia è una nazione buddhista e la prostituzione, comunemente chiamata “vendere il proprio corpo” non è legalizzata. Ciononostante ci sono zone a “luci rosse” dove, indisturbati, è possibile avvicinare le ragazze in locali che non sono apparentemente luoghi di prostituzione. In molti casi le donne provengono da famiglie, alle quali manca il minimo indispensabile per la sopravvivenza, in genere dal nord e nord est del Paese; ma ultimamente, non è raro trovare ragazze che frequentano le scuole superiori o l’università, alle quali il “ricavato” serve per l’acquisto di telefonini ed altri beni di consumo non di prima necessità. In sostanza, l’utilizzo del proprio corpo per scopi legati al guadagno è una pratica diffusa in Thailandia. Tra la gente comune, la percezione di questa “professione” è vista come una possibilità che queste giovani hanno di mantenere ed aiutare i genitori e magari qualche figlio nato da un matrimonio andato male. Cosa molto frequente. L’Occidente ha fatto il suo “bel pasticcio” anche in questo ambito. Era il periodo della guerra in Vietnam, 1960, quando le truppe americane, esauste di una guerra disumana, venivano ad attraccare le grosse navi da guerra davanti ad un piccolo villaggio ad est del golfo della Thailandia: quel paesino di pescatori si chiamava Pattaya. Ben presto, migliaia di soldati abbrutiti dalla guerra invasero quelle belle spiagge ed isole, attirando molta gente in cerca di lavoro, col risultato che il paesino si trasformò ben presto in un luogo di accoglienza prevalentemente maschile, con conseguenze piuttosto note: Pattaya è una città dove la vita costa veramente poco: pochissimo. Questa “tradizione” persiste ancora oggi tra le truppe statunitensi di ritorno dal Medio Oriente. Pattaya è una città abitualmente pericolosa, ma quando le truppe “invadono” i locali, è preferibile stare ancora più alla larga da un’intera città ‘a luci rosse’. Il cardinale emerito di Bangkok, Michael Michai Kitbunchu, anni fa puntò il dito contro gli stranieri che vengono in Asia con una domanda enorme di sesso, che “costringe” la popolazione, di cultura fragile e poco sviluppata, a vendere i propri figli e figlie ad un mercato che conosce una decadenza sempre più pericolosa. In pratica, il cardinale attribuisce la colpa all’Occidente se la Thailandia, ora, è tra i Paesi più famosi al mondo per la prostituzione. Con tutti questi luoghi dove il sesso viene offerto, si potrebbe pensare che la prostituzione “per strada” sia eliminata da Bangkok. Purtroppo non è così. Nel raggio di un chilometro da dove abito attualmente, dopo le 9 della sera, è possibile “acquistare” sesso ai diversi angoli di molte strade. Certo, con più decoro che sulle strade di Roma, più discrezione, ma in definitiva è la stessa cosa.
Ho abitato a Roma, all’Eur per tre anni e più di qualche volta sono intervenuto con i carabinieri, a notte fonda, per rimandare a casa ragazze che vicino la nostra casa urlavano. Credo e vedo che la prostituzione non si elimina né si regola con quartieri speciali. Anzi, penso proprio che l’idea dei quartieri speciali favorisca nei più giovani la percezione di questa pratica come una professione accettata, legalizzata e perché no, praticabile da chi vuole. In Thailandia, per le famiglie anche più povere che frequento e che hanno un alto concetto del valore del corpo, la questione della prostituzione è assolutamente esclusa, anche se il cibo disponibile giornalmente non è molto. È la figura della donna, il suo valore indiscutibile nella società che dev’essere protetto e ristabilito. Di recente, in Thailandia, molto donne, dopo una delusione amorosa o un matrimonio fallito, invece di accontentarsi di diventare semplici “monache” buddhiste (sono viste qui come delle “perdenti”) si fanno ordinare in Sri Lanka come “Bikkuni”, sacerdotesse, e stanno formando templi tutti femminili. Una bella iniziativa, che dà un grande valore religioso alla donna e ne aumenta il valore sociale: non sono perciò semplici monache vestite di bianco, in servizio ai monaci, ma vere sacerdotesse, con la possibilità di presiedere a funzioni religiose come i Bikkhù, i monaci. È questa una tradizione che risale al tempo di Buddha stesso. Che sia un primo riscatto della donna in Thailandia ed una “rinascita” del buddhismo? Sicuramente un passo in avanti, come molti monaci affermano, un passo che dà una dignità alla figura della donna nel Sud est asiatico.