Banche armate e il tabù infranto della guerra
Nel cuore del lombardo veneto, area tra le più ricche d’Europa, la città di Padova ha sempre avuto un forte legame con le banche. È qui che, nel Medioevo, un colto portoghese, che da frate cambiò il nome da Ferdinando ad Antonio, ingaggiò una dura lotta contro il sistema usuraio che stritolava la vita dei poveri e gettò le basi del sistema cooperativo e mutualistico.
È qui a Padova che solo 25 anni fa una miriade di piccoli soci ha dato vita alla Banca popolare etica che dal 26 al 29 febbraio 2024 ha ospitato l’incontro annuale della Global Alliance for Banking on Values, cioè l’alleanza mondiale delle “banche responsabili dal punto di vista ambientale, sociale e di governance”. Parliamo, come afferma Valori.it, di una rete di «settanta banche aderenti, disseminate in più di 45 Stati (con 80mila dipendenti e 60 milioni di clienti) che gestiscono asset per più di 200 miliardi di dollari».
È da questa assemblea, che si è poi spostata operativamente a Milano, che è partita la denuncia sul finanziamento della produzione e commercio delle armi da parte dei maggiori istituti di credito e fondi di investimento su scala mondiale. Una cifra da capogiro, mille miliardi di dollari, allineata con il riarmo planetario che nel 2023 ha raggiunto il nuovo record annuale di 2.500 miliardi della valuta Usa secondo il Sipri di Stoccolma.
Come riporta Mauro Meggiolaro, portavoce degli azionisti critici nelle assemblee dei soci della multinazionali, «ai primi posti tra gli investitori in armamenti figurano le più grandi società di investimento, tutte domiciliate negli Stati Uniti, come Vanguard, State Street o BlackRock. Nella parte alta della classifica non mancano però le banche europee come BNP Paribas, Deutsche Bank e Crédit Agricole. Le italiane Unicredit (4,4 miliardi di dollari) e Intesa Sanpaolo (2,1 miliardi di dollari) non sono tra le prime 10 in Europa ma seguono a poche lunghezze di distanza».
Nulla di nuovo dal fronte. La conoscenza di questi dati non è fine a se stessa, ovviamente, ma vuole essere un incentivo della campagna di disinvestimento dei risparmi pubblici e privati nelle cosiddette “banche armate”. Una linea di condotta intrapresa storicamente dal movimento cristiano protestate dei quaccheri ma che ora è diffusa anche in altre organizzazioni, da alcuni ordini religiosi fino al fondo pensione norvegese, cioè «il più grande fondo sovrano al mondo, con 1.200 miliardi di euro investiti».
La campagna “banche armate” è promossa ormai da anni in Italia dalle riviste dei missionari saveriani e comboniani assieme a quella di Pax Christi. Inizialmente accolta con scetticismo nello stesso ambito cattolico, tale pratica di consumo critico ha raggiunto risultati significativi grazie alla grande competenza di Giorgio Beretta, analista Opal.
Se ne è accorta anche l’associazione delle aziende della difesa e dello spazio (Aiad) legate a Confindustria che, come abbiamo messo in evidenza su cittanuova.it, su iniziativa del suo presidente Giuseppe Cossiga ha auspicato una riforma della legge 185/90 che prevede una relazione annuale da parte del governo sull’esportazione di armi comprensiva delle banche coinvolte in tale attività che vede il nostro Paese ai vertici mondiali (tra i primi dieci esportatori di armi pesanti al mondo).
La riforma della legge 185/90 nel senso auspicato dal mondo produttivo è ormai ad un passo dall’essere approvata dopo il voto del Senato ed il sì definitivo della Camera nonostante gli appelli di Banca etica, Rete italiana pace e disarmo e anche parte significativa dell’associazionismo cattolico. Si veda la conferenza stampa dello scorso 4 ottobre e quella del 4 marzo imminente.
Lo sdegno per il flusso di denaro assicurato dalle banche verso la produzione bellica, cozza contro la realtà dei piani di riarmo in atto da decenni e che hanno ricevuto un forte incentivo con l’aggravamento del conflitto in Ucraina determinato dall’invasione russa del 24 febbraio 2022.
Dopo 2 anni di una guerra di logoramento, sembra che non siano più sufficienti le ingenti forniture di armi verso Kiev iniziate ben prima del febbraio 2022, mentre il complesso militare industriale russo ha dimostrato una capacità di resilienza superiore alle aspettative. La situazione è fuori controllo come dimostra l’utilizzo, da una parte e dall’altra, di ordigni devastanti come le bombe a grappolo e le armi all’uranio impoverito.
L’espansione del conflitto è tra le ipotesi possibili dei diversi Stati maggiori. Il 28 febbraio, parlando al Parlamento europeo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha affermato che «i rischi di una guerra non dovrebbero essere esagerati, ma bisogna prepararsi» con la necessità di «potenziare la nostra capacità industriale della difesa nei prossimi cinque anni».
È sempre più centrale il nodo della configurazione di una politica di difesa comune europea che ovviamente presuppone una linea di politica estera condivisa. Il sistema industriale dei Paesi Ue è frammentato e spesso in competizione tra le aziende del settore della difesa, proiettate verso i mercati internazionali. Una constatazione che porterebbe a piani di integrazione con razionalizzazione e riduzione dei costi. Ma per la von der Leyen «l’Europa deve spendere di più» e questo senza contare il dinamismo extra Ue della Gran Bretagna che è un perno fondamentale della Nato e si è distinta nel sostegno militare a Kiev.
Negli ultimi giorni il presidente francese Emmanuel Macron ha espresso l’idea del possibile coinvolgimento delle truppe occidentali in Ucraina come misura necessaria per impedire la vittoria di Putin. L’immediata smentita da parte degli altri Paesi Nato, a cominciare dagli Usa, rimanda al fatto che Kiev non appartiene ancora all’Alleanza atlantica, ma il senso delle parole di Macron va colto come la rottura di un tabù da parte di una nazione che, in Europa, assieme a Londra possiede l’arsenale nucleare e fa parte del consiglio di sicurezza dell’Onu.
La pressione a “mettere gli scarponi a terra”, come si dice in gergo militare, è costante negli ultimi anni per il nostro Paese che ora guida la missione navale europea che affianca Usa e Gran Bretagna nel contrasto degli attacchi al traffico commerciale nel mar Rosso da parte degli Houthi. I ribelli yemeniti intendono con la loro azione ostacolare i rifornimenti verso Israele impegnato nella guerra di reazione su Gaza dopo l’eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023.
La carneficina in atto su Gaza ha superato le 30 mila vittime con la morte di oltre 100 palestinesi che cercavano di ricevere i pochi aiuti alimentari in arrivo per la popolazione sotto assedio. Le fonti israeliane, in questo caso concreto, hanno parlato in un primo tempo di errore da parte dell’esercito di Tel Aviv per poi cambiare versione e sollevarsi dalla responsabilità diretta della strage di civili, mentre fonti dirette del New York Times, come riporta l’Agi, parlano di «decine di corpi di morti e feriti da armi da fuoco, inclusi colpi alla testa, al collo e al mento, distesi lungo la strada».
Anche se l’opinione pubblica è abituata ad una certa assuefazione mediatica dell’orrore, è evidente che la tensione si fa sempre più pressante e incentiva la crescita verso il riarmo e il suo necessario finanziamento.
La legittimazione teorica di tale equazione è arrivata da un chiaro editoriale di Angelo Panebianco sul Corsera del 25 febbraio in cui si afferma l’eccezionalità dei tempi che impongono di dare priorità alle spese di sicurezza su quelle del welfare.
Collegare il riarmo, anche nucleare, con la sicurezza è il nocciolo della questione da affrontare a partire dalle imminenti elezioni del Parlamento europeo.
Intanto, l’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Rete AOI), nell’ambito della campagna #EmergenzaGaza, in collaborazione con Amnesty International Italia, ARCI e Assopace Palestina, ha annunciato che «dal 3 al 6 marzo una delegazione di operatori e operatrici umanitari, 16 parlamentari, 13, giornaliste e giornalisti, accademici ed esperte di diritto internazionale si recherà in Egitto per raggiungere il valico di Rafah» per portare aiuti e vicinanza alla popolazione sotto assedio.
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