Bambole d’altri tempi raccontano…

Sono tre e somigliano stranamente alle Barbie di oggi. Tre toccanti vicende di vite stroncate nel fiore degli anni
Bambola di Crepereia Tryphaena

Tralasciando tutti gli altri tesori del Museo nazionale di Palazzo Massimo a Roma, scendiamo nel piano interrato di questo straordinario contenitore per incontrare la dimensione più umana degli antichi romani: quella che riguarda la vita quotidiana e la morte. Ce la illustrano due reperti d’eccezione, due pupae (così si chiamavano in lingua latina le bambole) appartenute al corredo funebre di una bambina e di una ragazza.

La bambina di Grottarossa

La sua scoperta ha quasi il sapore di un “giallo”. Il 5 febbraio 1964, durante i lavori nel cantiere di una villa al km 11 della via Cassia, bivio con via di Grottarossa, una ruspa abbrancò malamente un sarcofago marmoreo, che rivelò un corpicino apparso sul momento la vittima recente di un delitto, motivo per cui fu subito avvisata la polizia. Ripulita un po’ dal fango, la piccola salma mostrava un volto dalla pelle morbida, quasi rosata, mentre le bende da cui era avvolta emanavano ancora un intenso profumo di resina. La bambina, che gli archeologi subito attribuirono all’epoca romana (dopo gli studi effettuati, tra il 150 e il 200 d.C.), era stata infatti imbalsamata, caso piuttosto raro a Roma.

Purtroppo l’esposizione all’aria fece sì che in brevissimo tempo quelle fattezze ancora intatte si deteriorassero: è il motivo per cui oggi il corpo custodito in una teca climatizzata a Palazzo Massimo non si distingue in nulla da quelli disseccati e anneriti delle mummie egiziane. L’imbalsamazione dovette avvenire sul suolo italico e non sulle rive del Nilo: lo proverebbero – a differenza delle consuetudini egiziane – l’assenza di natron e bitume come pure l'aver conservato gli organi interni. Dall’esame del Dna la bambina risultò italica almeno per via materna. Nella sua breve vita (le si assegnarono circa otto anni) fu afflitta da varie malattie: osteoporosi, malnutrizione (ciò che stupisce dato l’alto livello sociale testimoniato dal corredo funebre) e infine pleurite da tubercolosi, probabile causa della morte.

Nelle vetrine accanto alla mummia si ammirano i monili con i quali fu sepolta, testimoni degli intensi traffici che la Città Eterna intratteneva con la Cina (tracce d’una tunica di seta intessuta con fili d’oro), con le regioni affacciate sul Baltico (l’ambra di alcuni vasetti) e con l’attuale Sri Lanka (gli zaffiri della collana d’oro provengono da lì).

Essendo il bel sarcofago in marmo di Carrara privo di iscrizione, ignoriamo il nome della defunta e della sua gens (anche se c’è chi ha avanzato l’ipotesi seducente di una discendenza della nobile famiglia degli Scipioni, in base alla particolare raffigurazione incisa su un anello). Toccante, sull’alzata del coperchio, la scena che raffigura un cucciolo di leone avvolto in un panno e sottratto alla madre da un cavaliere in fuga verso una barca: un riferimento al prematuro distacco della bambina dalla sua famiglia d’origine?

Ma veniamo all’oggetto più raffinato e interessante rinvenuto accanto a lei: la bambola in avorio con braccia e gambe articolate. Lunga 17 centimetri, ha il volto scolpito di una fanciulla ventenne; i capelli, divisi in due bande e raccolti in una crocchia, sono ornati da un diadema lunato con piccoli incavi che simulano gemme; i piedi sono calzati da eleganti pantofole. Un manufatto, dunque, che richiama, se non una dea, una persona adulta in definitiva, come del resto denotano i seni e i larghi fianchi. Sono caratteristiche che ritroveremo anche in altre due bambole: segno che le bambine dell’antichità preferivano quelle che riproducevano esattamente il mondo reale, un po’ come avviene con le moderne Barbie.

La fanciulla di Vallerano

Il suo sarcofago, anch’esso privo di iscrizione, è stato rinvenuto il 19 marzo 1993 a Vallerano, lungo la via Laurentina. Dal corredo funebre, datato al II secolo dopo Cristo, si arguisce che la proprietaria, una ragazza sui sedici anni, apparteneva a una nobile e doviziosa famiglia: fanno parte di esso un reticulum o reticella per i capelli, costituita da 13 mila elementi d’oro, monili in oro e pietre preziose come il raffinato cammeo di ametista, simile a gioielli analoghi riprodotti sulle stele di Palmira, città della Siria con cui Roma intratteneva, al tempo di Marco Aurelio, intensi scambi commerciali; inoltre oggetti per la toletta (uno specchio argenteo con inciso il mito di Elle e Frisso e un portatrucco in argento a forma di conchiglia bivalve).

Spicca fra il resto, anche qui, una bambola d’avorio alta venti centimetri: di accurata fattura, presenta il volto scolpito e incorniciato dai capelli raccolti in trecce e poi girati intorno al capo, secondo la moda dell’epoca; i lobi delle orecchie forati per inserirvi gli orecchini; gli arti snodabili e raccordati al resto del corpo mediante perni e un sistema d’incastro. Bambole del genere, oltre ad essere provviste di gioielli miniaturizzati (questa di Vallerano è ornata anche di bracciali ai polsi e alle caviglie), venivano rivestite con abiti anch’essi di lusso, di cui ovviamente si è persa traccia.

Crepereia Trifena

Accanto a queste due non può essere tralasciata la bambola più bella e famosa, purtroppo attualmente non visibile in quanto custodita in un caveau del Campidoglio (nel 1983 però ho avuto la fortuna di ammirarla in una memorabile mostra che ha richiamato decine di migliaia di visitatori). Era appartenuta a Crepereia Trifena, una giovane sui vent’anni alle soglie del matrimonio, l’unica delle tre di cui sappiamo il nome grazie alla scritta sul suo sarcofago. Esso venne rinvenuto nel novembre 1889 accanto a quello di un personaggio maschile della stessa famiglia, Lucio Crepereio Euodo, durante gli scavi per le fondazioni del Palazzo di Giustizia nel quartiere Prati, in Roma.

La scoperta, per le singolari circostanze che l’accompagnarono, fece scalpore e attirò per giorni folle di curiosi: entrambi i sarcofagi, infatti, all’apertura furono trovati colmi di acqua per la vicinanza del Tevere, acqua così limpida da lasciar vedere perfettamente gli scheletri. Pathos particolare suscitò il teschio di Crepereia sul quale era cresciuta una pianta acquatica filamentosa che simulava la chioma, il volto leggermente rivolto verso la spalla sinistra, là dove era adagiata una pupa d'avorio scurito dal tempo sì da parere legno. Il ricco corredo comprendeva una coroncina di foglie di mortella trattenute da un fermaglio d’argento, orecchini d’oro con perle, una collana d’oro con pendaglietti di berillo, tre anelli di cui uno con cammeo portava inciso il nome Filetus (il promesso sposo?), una spilla d’oro con ametista incisa, un bastoncino tortile in ambra, forse simbolo di un’attività femminile come la filatura; inoltre una serie di oggetti in miniatura tra cui gli elementi di un cofanetto, due specchietti d’argento, pettinini d’osso: il probabile nécéssaire della bambola, che portava ancora infilato nel pollice un anellino a chiave del tipo di quelli d’uso nel mondo muliebre romano per gli scrigni portagioielli.

Se l’elemento più pregevole è la spilla con ametista, forse un antico gioiello di famiglia, il più interessante è senz’altro la bambola per la raffinatezza del modellato e la perfezione delle articolazioni mobili. Essa misura 23 centimetri, e la sua testa-ritratto si può considerare una vera piccola scultura, servita fra l’altro a fissare l’epoca della sepoltura intorno alla metà del II secolo d. C. Infatti la sua complessa acconciatura si ispira alla moda di quegli anni, unendo elementi caratteristici di Faustina Maggiore, moglie di Antonino Pio, con quelli della figlia Faustina Minore.

Era uso, nel mondo greco e romano, che le fanciulle alla vigilia delle nozze consacrassero agli dei gli oggetti-simbolo della loro trascorsa infanzia per impetrarne la protezione. Crepereia non ne ebbe il tempo e per questo venne sepolta con accanto la bambola che le era stata cara. A lei Giovanni Pascoli dedicò un commosso carme in latino, di cui riporto qualche verso: «Vitrea virgo sub aqua latebas,/ at comans summis adiantus undis/nabat. An nocti dederas opacae/spargere crinis? – Ti celavi, fanciulla, nell’acqua cristallina; e a fior d’acqua ondeggiava il chiomato capelvenere. Avevi forse consentito alla buia notte di sciogliere i tuoi capelli?».

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