Bambino musicista ambulante

Lo avevo già incontrato in piazza Cordusio, seduto su un panettone di cemento, con gli occhiali, paffutello, sette/otto anni circa, vigilato a distanza discreta dalla mamma. Lei classifi- cabile come zingara, lui come un qualsiasi bambino milanese, disinvolto, paziente. Così seduto indossava una piccola fisarmonica di 48 bassi, a pianoforte. Come esecuzione sapeva il fatto suo. Avevo guardato la mamma. Come si comporta, che espressione ha una mamma che chiede al figlio di sette anni di contribuire (forse mantenere) la famiglia? Notavo un’espressione mista tra l’amorevole, la sollecitudine, l’orgoglio per il piccolo prodigio e l’abitudine, la normalità. Non avevo avuto tempo di fermarmi. Rivedo la coppia dopo qualche tempo, sempre nei paraggi di piazza Cordusio. È sera. La mamma porta in spalla la piccola fisarmonica e il bambino le cammina ora di fianco interrogandola e dandole la mano molto affettuosamente, ora dietro salendo e discendendo più volte da una panchina, ora avanti in una breve corsa, ora attardandosi.. Che ora è?, chiede molto spigliato a due coppie di ragazzi che passeggiano in piazza Duomo. Gli rispondono, lui replica e li diverte. Non ho capito cosa abbia detto. Prima di allontanarsi proclama: Ancora due ore e mezzo, come se i ragazzi sapessero da sempre che lui suona e ha i suoi orari da rispettare. Incrocia il venditore di caldarroste. Mi dai un panino?. Da come il venditore ambulante risponde si capisce che lo conosce: Se non c’è il principale non posso darti il panino. Così abbiamo imparato che il caldarrostaio ha un principale. Dammi dell’acqua , replica il bambino. A quel punto l’uomo gli dà una piccola bottiglia di minerale piena per i due terzi. Il bambino fa qualche passo poi si gira: L’hai bevuta con il bicchiere, vero?. Sì, sì, fa l’altro, facendo intendere che era già troppo se gliel’aveva data. Il bambino beve qualche sorso, poi si sposta sul lato della strada, vuota l’ultima porzione d’acqua, chiude la bottiglietta di plastica che diventa un ottimo pallone da calciare a destra e a sinistra. Quando capita tra i piedi della mamma la calcia pure lei. Chissà cosa stanno prendendo a calci. Incontrano una pasticceria. Il bambino entra, la mamma resta fuori alla giusta distanza (li sto seguendo, come s’è capito). Noto che anche qui conoscono il bambino. Una ragazza in divisa lo accoglie sorridente e lui se ne esce con una bella fetta di torta che addenta e arrivato a una certa dimensione, la passa alla mamma che non sorride mai, parla sottovoce, ha un nastro dietro ai capelli, gli zoccoli senza calze, gonne lunghe. E il papà dove sarà? Intanto si perde la torta. Imboccando Corso Vittorio Emanuele la mamma si sfila la fisarmonica dalle spalle e la sistema su quelle di figlio però davanti, pronta per essere usata. Con molto automatismo il piccolo incomincia a suonare. Stupefacente, anche se non usa i bassi. In alcuni passaggi di Tico Tico mi dà una lezione. Suona, s’infervora, si avvicina ai tavolini dei bar esposti lungo il corso per farsi meglio sentire e notare dagli avventori. Si concentra su alcuni passaggi più difficili, poi il suo sguardo è tutt’altro che rivolto ai clienti. Si alza sui palazzi, sulla Madonnina, torna alla tastiera. A uno dei tavoli più esterni stanno seduti due classici rappresentanti della borghesia benestante. Lo si deduce dai vestiti e dai discorsi. Sulla cinquantina. Non danno retta al bambino che si è avvicinato suonando. Forse non lo notano neppure, intenti come sono nella loro discussione. Sopra la fisarmonica, come se fosse posta su un piedistallo, spunta la testa rotonda del bambino, i suoi occhiali con la montatura nera, i suoi capelli neri, corti, aderenti. L’unica è avvicinarsi di più, suonare più forte, dare più espressione al brano. All’improvviso uno dei due signorotti infastiditi gli intima di allontanarsi. A quel punto il paffutello interrompe la musica, va sotto ai due, unisce le punte delle dita della mano destra rivolte verso il proprio viso e scuotendo la mano esclama con energia, la stessa con la quale probabilmente i due borghesi si rivolgono ai subalterni: Ti ho chiesto qualcosa? e, riprendendo a suonare per sfida, dopo qualche attimo s’infila fra i tavolini in cerca di gente più intelligente, più di mondo.

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