Ballo a tre passi

Siamo in Sardegna, ai giorni nostri. Ce ne accorgiamo solo perché uno dei ragazzini che viaggiano sul cassone del camion che li conduce al mare per la prima volta indossa la maglietta di un noto campione di calcio. Gli altri riferimenti, invece, sembrano negare ogni allusione temporale: il paese da cui partono è un intrico di case povere imbiancate a calce, il camion ha ancora la vecchia targa nera con le cifre in bianco; il paesaggio è una distesa piatta e deserta attraversata da un sottile nastro d’asfalto, la spiaggia è un accenno di deserto, un susseguirsi di dune bianche a perdita d’occhio. Resiste ancora questa Sardegna, dove il tempo scorre più lentamente che altrove e ci sono ragazzini quasi adolescenti che ancora non hanno visto il mare? Il merito di Salvatore Mereu, che questa terra e questa gente dimostra di conoscere abbastanza bene, sta nell’aver avuto la sensibilità di farne i veri protagonisti del suo film. Perché, anche se nella storia recitano attori professionisti, è indubbio che l’elemento trainante del film sono proprio la freschezza e l’energia della gente e dei paesaggi in cui si muovono. Tanto più che i quattro episodi di cui si compone il film (ognuno ispirato a una stagione e alla corrispondente età della vita) non raccontano vere e proprie storie, ma più che altro situazioni legate a quegli episodi di vita minimi, ma importanti e significativi per chi li vive. E il regista sardo è bravo nel mettere in luce la profondità e l’intensità di emozioni e sentimenti che illuminano dal di dentro questi momenti di apparente banalità, dilatando i tempi della narrazione per lasciare parlare sguardi e silenzi, e lasciando libero sfogo al dialetto (debitamente sottotitolato) quando deve far conversare i suoi personaggi. Ballo a tre passi – primo premio a Venezia della Settimana della critica – è un film che ha stile, oltre ad anima e cuore, ma forse proprio questo ne segna, paradossalmente, anche il suo limite più evidente. L’esilità della traccia narrativa, infatti, spinge il regista a una ricerca stilistica che non sempre riesce a sostenere il racconto come dovrebbe (il debole finale, così smaccatamente felliniano, ne è l’esempio più evidente, ma anche un’insistenza su situazioni ambigue, che rischiano di dare della Sardegna un’immagine unilaterale). Un film interessante, insomma, ma che soffre la mancanza di vere e proprie storie da raccontare. Regia di Salvatore Mereu; con Caroline Ducey, Michele Carboni, Massimo Sarchielli, Daniele Casula.

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