Bacon e Caravaggio
Cent'anni fa nasceva il pittore inglese. Quattrocento anni orsono moriva il Caravaggio. A Roma un confronto inedito attraverso i loro capolavori.
Quando mi fermo di fronte al Caravaggio estremo, il David con la testa di Golia (1610), mi nasce una grande pietà. Il volto del gigante straziato è quello del pittore, che teme di fare la sua stessa fine; e quello del giovane è sempre lui, il Caravaggio, ma da ragazzo, bianco e un poco triste. È una tela insanguinata. Gronda una richiesta di compassione. Caravaggio ce la chiede tutta, la spera.
Se passo, subito dopo, al Ritratto di Isabel Rawstorne (1966), non vedo che carne deformata. Il volto è trasformato, i lineamenti maciullati, i colori asprigni. Lo spazio, freddo e chiuso come una figura geometrica. Sento un timore impadronirsi lentamente di me. Posso fare la sua stessa fine, oggi, domani, appena uscito dalla Galleria Borghese. Il mio corpo, quel corpo che rideva – sghignazza anche, in Bacon –, si muoveva, soffriva e amava, può esser ridotto ad un nulla.
Ecco, Francis Bacon mi ricorda, senza volerlo o saperlo, la vanità di ogni cosa; tutto «è effimero». Me lo dice con una violenza tesa sino allo spasimo. Perché Bacon – in questo assomiglia a Caravaggio – non conosce le mezze misure.
Quante volte ho visto il Martirio di sant’Orsola. La ragazza che si guarda, incredula, la freccia nel petto e il carnefice, occhio bieco, che l’ha appena scoccata. Marroni, rossi bruciati, bianchi sporchi, dicono la sorpresa della morte. Un lampo. Per Francis Bacon invece la morte è qui, ora. In un certo senso, per lui il mondo è fatto di morti che camminano.
Nel Triptich August (1971-72) le forme si sbilanciano sedute o a terra, ci guardano come da una dimensione di terribilità. Il timbro elettrico dei colori – i rosa, i neri – rende la scena veloce come un fotogramma cinematografico e nello stesso tempo lo “congela” in una macchia cromatica.
Non ci potrebbe essere nulla di più lontano dai sereni trittici rinascimentali o medievali: il Novecento è davvero il secolo dell’angoscia. Su cui si può anche sghignazzare a bocca aperta, come il papa (dall’Innocenzo X di Velàzquez) del 1949: una maschera urlante, ora disperata ora buffa, nelle diverse versioni di uno soggetto che affascina Bacon. Il quale rivisita la storia dell’arte con un senso dissacratorio chiaro, ma non meno sofferto. Per lui infatti un mondo, una civiltà, si è chiuso per sempre. Lo si può rivisitare, ma non comunica gioia. Tutt’al più si può evocarlo o anche irriderlo, “correggendo”, nel caso, i rossi del severo pontefice di Velàzquez in un blu violaceo che sa di cadaverico.
Certo, anche Caravaggio rivisita il passato. Chi osserva la Conversione di Saulo, dipinta per il giubileo del 1600, ricorda la scena di Michelangelo nella Cappella Paolina, il santo schiacciato dalla grazia. Ma il Merisi prosegue oltre la citazione per farla sentire viva: la gran macchia di un cavallo, l’interno buio della stalla, il giovane santo steso a terra, rosso fuoco, sotto il bagliore, parlano di vita, non di morte.
Bacon avverte su di sé invece il peso di un tempo che ha, sembra inesorabilmente, “perduto l’anima” e quindi l’umanità. Che cosa conserva di umano infatti lo Study of George Dyer del 1969? L’uomo, posto al centro di una “scatola geometrica”, ha il volto quasi animalesco, il corpo sanguigno. Appare solo carne. Se l’anima è scomparsa o distrutta dal male, allora il corpo che rimane è un burattino che il pittore può muovere a suo piacimento, o distruggere. O deformare. Ma Bacon non è superficiale: il dolore gli fa vedere, ed egli ce lo mostra ripetutamente, cosa succede dentro all’umanità privata della luce. Diventa una sorta di nulla nato dal nulla. Che pure ha una sua dinamica.
Caravaggio conosce anch’egli la carne e il sangue. In quante tele il rosso dell’emozione, del martirio trova voce. Pure, come si osserva nella grande Resurrezione di Lazzaro, c’è una speranza di uscire verso una possibile novità. Non per niente lui si è ritratto due volte, lo sguardo sospeso, nella tela siciliana.
Bacon, negli autoritratti, si guarda in uno specchio deformato, e si nasconde. Ma quando la pupilla dell’occhio, esce dal buio (1980), getta uno sguardo di pianto. Cerca qualcuno. Grida, anche lui, come il Merisi.
Ma, mentre Caravaggio sa che in qualche modo può arrivare una eco, egli dispera. Non è stato forse il Novecento anche un secolo “disperato”?
Pure, oltre le forme scomposte e i colori laceranti, noi avvertiamo con Bacon una vicinanza, una solidarietà. Forse è il suo viscerale amore per l’uomo e il desiderio di essere accolto, ascoltato, che ce lo rende vicino. Come, nella sua voce diversa, ci succede con Caravaggio.
Caravaggio-Bacon. Roma, Galleria Borghese, dal 2/10 al 24/1 (catalogo 24 ORE Motta cultura, Federico Motta editore)