B.B. King addio, è morto il re del blues

Si è spento nel sonno a Las Vegas; a settembre avrebbe compiuto 90 anni. Era la massima icona del blues elettrico, quello da cui sarebbero germogliate le grandi epopee del rock’n’roll e di ciò che oggi chiamiamo rock
B.B. King

È stato il primo dei precursori, e l’ultimo dei grandi. Un tempo, quando ancora il mito biondo della Bardot non era neanche nato, l’unica sigla B.B. concepibile era al maschile, ed era la sua. Perché mister Riley B. King era fin dalla fine degli anni ’40 una delle stelle più rilucenti di ciò che all’epoca si definiva rhythm’n’blues ovvero l’adattamento elettrico e urbanizzato del blues acustico del vecchio Sud rurale degli Stati Uniti.

La sua biografia ha tutte le stimmate di una leggenda: il lavoro massacrante da ragazzino nei campi di cotone, la passione per il gospel nel coro della sua parrocchia, la passione per la chitarra e per i grandi eroi del jazz e del blues primigenio: Charlie Christian, Django Reinhardt, Bukka White

Cominciò a farsi un nome in quel di Memphis Tennessee, e poi a Los Angeles, alla corte del signor Sam Phillips, colui che anni dopo avrebbe lanciato un giovanissimo Elvis Presley. Lo chiamavano the blues boy, il ragazzo del blues: la sigla B.B. viene da lì.

I suoi primi successi arrivarono all’alba degli anni ’50; molti erano destinati a diventare dei classici, non solo per gli afro-americani, ma anche per quella nuova generazione di ragazzini bianchi che nel decennio seguente avrebbe fatto deflagrare nel mondo il rock. Dai Rolling Stones a Dylan, da Clapton ai Led Zeppelin, non c’è rockstar che non gli debba qualcosa. Ma B.B. non è mai stato geloso del proprio talento, anzi, gli piaceva confrontarsi e collaborare coi suoi colleghi non meno che coi suoi epigoni.

Una lista sterminata di duetti che ne conferma carisma transgenerazionale ed eclettismo: Muddy Waters, Pavarotti, Elton John, Aretha Franklin, gli U2, perfino i nostri Zucchero ed Edoardo Bennato. Lui e la sua inseparabile Lucille, la Gibson nera modello ES 335: la compagna di una vita.

Una tecnica originale al servizio di una creatività mai meramente virtuosistica. Energia, passione e talento destinati a lasciare un segno indelebile nella musica popolare del Novecento, ma che è facile prevedere continueranno a far da punto di riferimento per chissà quante altre generazioni di musicisti: bianchi e neri, americani e non.

Una settantina di album, centinaia di canzoni, migliaia di concerti in tutto il mondo; quindici Grammy Awards in bacheca e un’infinità di altri premi e onoreficenze. Epperò mai rassegnato ad una gloria da salotto geriatrico: sempre pronto a calcare le assi di un palco per continuare a regalare e a regalarsi emozioni: fino a qualche mese fa, finché il diabete col quale combatteva da vent’anni, glielo ha permesso.

Adesso aspettiamoci la solita carrettata di raccolte e d’incisioni inedite (il suo ultimo album ufficiale è un live registrato nella mitica Royal Albert Hall nel 2011 attorniato da stelle come Ron Wood, Slash e Mick Hucknall, entusiaste dell’onore di condividere quel palco). Probabilmente arriveranno anche le solite diatribe tra eredi e manager; lui, come tutti i re, l’aveva di certo messo in conto da tempo. Ma son minuterie destinate a svaporare in fretta e ad annichilirsi di fronte alla potenza abbagliante di tutti i caposcuola.

Di certo il vecchio B.B. non ci mancherà: perché, com’è privilegio dei veri maestri, sopravviverà per sempre nella sua musica, un patrimonio davvero universale di gioia e struggimento, di classe e di sudore. Perché lui era il blues: quel linguaggio cosmopolita e sempiterno dell’intimo in costante reincarnazione, trascendendo i tempi e le mode, i capricci dello show-biz e le sue più avvilenti mercificazioni.

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