Azienda Italia barca in secca

Troppo modesti i segnali di ripresa. Insufficienti i provvedimenti del governo per imprenditori e sindacati.
Lavoro

Non bastano i pannicelli per proteggersi da questo inverno economico e occupazionale ancora molto rigido. Certo, i timidi segnali di ripresa costituiscono un indicatore positivo, ma ci vuole ben altro per togliere il freddo al comparto produttivo del nostro Paese.

 

Gli ultimi dati Istat hanno registrato in dicembre un miglioramento della produzione (+8,7 per cento) rispetto allo stesso mese dell’anno prima, tanto da determinare un incremento annuale del 5,3 per cento rispetto all’intero 2009. Sarebbe un tasso di crescita da super brindisi se il confronto non si tenesse con quel catastrofico anno in cui la nostra economia aveva patito un crollo del 18,4 per cento rispetto ad un già negativo (-3,2) 2008.

In buona sostanza, c’è di che tenere a freno gli entusiasmi e arginare irrealistici ottimismi. Ma non si può non concordare con il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, che vede nell’incremento della produzione «un buon indicatore che si accompagna con la diminuzione della cassa integrazione». In effetti, nel mese di dicembre il ricorso alla cassa integrazione è diminuito del 4,7 per cento: un dato notevole perché è la terza riduzione consecutiva, un valore incoraggiante a motivo di una tendenza in atto.

 

Va dato atto agli accordi tra governo, imprenditori e sindacati di aver attenuato i colpi della crisi, mantenendo i lavoratori collegati al loro posto di lavoro. Questi ammortizzatori sociali sono stati rifinanziati per il 2011 con la legge di stabilità, ma il provvedimento potrà far ben poco per i 200 mila posti a rischio nelle 170 vertenze di aziende medio-grandi aperte con il ministero e nei confronti dei 250 mila del settore delle costruzioni.

 

In tema di ripresa sono di diverso avviso i sindacati, tanto che la Cgil parla di «risultati minimi, ancora molto al di sotto della fase pre‑crisi» e l’Ugl ravvisa «timidi segnali» su cui «grava l’ombra della disoccupazione giovanile». E proprio riguardo alle nuove generazioni, la situazione italiana rasenta l’emergenza, perché la disoccupazione continua a salire (siamo al 29 per cento) e oltre due milioni sono i ragazzi tra i 15 e i 29 anni privati di ogni speranza, dal momento che non studiano, non lavorano, non cercano un’occupazione, non tentano di qualificarsi. È il dato peggiore dell’intera Unione europea. A cui si aggiunge il fatto che una donna su due non è inserita in un’attività produttiva.

 

«L’Italia è un Paese con un debito alto, ma i suoi cittadini sono ricchi», ha affermato il presidente del Consiglio Berlusconi, durante la presentazione delle misure governative per rilanciare l’economia, facendo un raffronto tra i conti pubblici e la situazione delle famiglie. Stizzita la risposta del segretario Pd Bersani: «Quando si ha una psicologia da miliardario, non si può capire come va il Paese».

 

Almeno gli evasori non se la passano male. Sino ad ora. Nel 2010, a seguito dell’azione dell’Agenzia delle entrate, dell’Inps e di Equitalia, sono stati recuperati 25,4 miliardi di euro tra imposte, tasse e contributi non versati. Una cifra ragguardevole, ma che dice quanto sia grande il mare da prosciugare. Ancora più urgente allora l’attesa riforma fiscale che favorisca la riduzione del carico delle tasse per famiglie, lavoratori e pensionati, spostando – come si chiede da più parti – quote del prelievo fiscale sulle rendite, a partire da quelle finanziarie e sui consumi pregiati.

 

Niente di questo nei provvedimenti che esaminiamo a parte e su cui Confindustria, per bocca della sua presidente Marcegaglia, ha espresso giudizi tiepidi, attendendo di veder passare dalle intenzioni a specifiche misure legislative. Posizioni non dissimili tra i dirigenti delle piccole e medie imprese, cui dà voce il vice direttore del Corriere della Sera, Dario Di Vico: «L’iniziativa del governo non sembra sostenuta da un robusto lavoro di ricognizione e di elaborazione sui reali nodi della crescita lenta. Manca qualcosa che assomigli a una visione compiuta dello sviluppo italiano».

I benefici al Paese vengono dalle esportazioni, principalmente dalle multinazionali del lusso e dalle nostre medie imprese che hanno saputo farsi valere sia sui mercati emergenti che su quelli consolidati, dando ossigeno alle filiere di aziende del settore e ai distretti in gran parte rinnovati e ora competitivi.

 

In Cina e in India vendiamo un bel po’, ma – rimproverano gli esperti – senza quella necessaria continuità nella promozione e nell’assistenza che sono oggi i fattori determinanti del successo di una produzione pur apprezzata come il made in Italy. Per rendere stabili le quote di mercato conquistate diventano indispensabili adeguati sostegni.

Paolo Lòriga

 

BOX 1

I provvedimenti del governo

 

Un Consiglio dei ministri convocato appositamente per il rilancio dell’economia, ha varato una serie di iniziative che prevede anche una nuova formulazione dell’art. 41 della Costituzione, quello che sancisce la libera iniziativa economica. Con le modifiche proposte si specificherebbe che «tutto ciò che non è vietato, è lecito» e i controlli sulla nascita di nuove imprese avverrebbero ex-post, a cose fatte.

 

Farebbe paio con questa la modifica dell’art. 97 della Costituzione, relativo invece alla pubblica amministrazione: qui le novità riguarderebbero l’inserimento del richiamo al bene comune, dei principi di semplicità e trasparenza, dei criteri di capacità e merito.

 

L’uso dei condizionali è d’obbligo, dato che la modifica anche di un solo articolo della Costituzione richiede una procedura più complessa che per le altre leggi. Una sorte più semplice attende invece il decreto legislativo che fa ordine nel ginepraio di norme, statali e regionali, che ora disciplinano gli incentivi alle imprese, raggruppandoli in tre sole categorie.

In materia edilizia, il ministro Calderoli ha promesso un intervento urgente per la semplificazione delle procedure anche nell’edilizia privata e pubblica. Ma soprattutto il ministro Matteoli ha assicurato investimenti con finanziamenti europei su alcune grandi opere (come ad esempio la Salerno-Reggio Calabria, la Cisa e il Mose di Venezia), con speranza di apertura di nuovi cantieri dal 2013.

 

Il governo ha poi stabilito un ruolino di marcia per l’attuazione del “piano per il Sud”, per cui il 1° marzo saranno approvate le delibere del Cipe, il Comitato interministeriale che gestisce i fondi, relative ai programmi nazionali e regionali. Cento milioni di fondi europei per le aree sottoutilizzate (Fas) sono stati destinati invece all’impianto dell’infrastruttura telematica della banda larga, anche se i tempi di avvio indicano metà del prossimo anno. Infine, un disegno di legge per smaltire l’arretrato di processi civili, macigno che pesa molto sull’economia.

 

Quello che balza all’occhio è che del “pacchetto” di interventi non fa parte un decreto-legge, lo strumento principe che assicura l’immediata entrata in vigore delle misure e quindi la loro diretta incisività. Che vuol dire? Una sola cosa: in cassa non ci sono euro pronti da investire. Il ministro Tremonti ha ribadito che il governo andrà in Europa «con le carte in regola», ovvero con la tenuta dei conti pubblici. Resta quindi da conciliare la scarsità di risorse con l’intenzione espressa dal presidente Berlusconi di «dare una scossa all’economia, arrivando nell’arco di 3-4 anni a una crescita del pil del 3-4 per cento».

Iole Mucciconi

 

 

BOX 2

Il debito pubblico

lo paghi qualcun altro

 

Alla fine questo dannato debito pubblico qualcuno dovrà pagarlo. Al di là delle cifre, non troppo promettenti, che si possono racimolare vendendo le restanti proprietà pubbliche, qualcuno dovrà mettere mano al portafoglio e pagare. La questione è solo di definire chi e in quale forma. Una verità ignorata nel dibattito in corso sui temi fiscali. Riflettiamo un attimo sulle alternative.

 

A pagare potranno essere chiamati i lavoratori e i consumatori di oggi attraverso prelievi sul loro reddito o aggravi sui prezzi che pagano; oppure potranno essere chiamati in misura maggiore coloro che percepiscono redditi da proprietà (interessi, dividendi, ecc.) attraverso aliquote fiscali meno favorevoli di quelle odierne. Oppure, invece che tassare il reddito, si può pensare di tassare i patrimoni accumulati o ereditati – colpendo quindi i proprietari di case, terreni, titoli finanziari, ecc… – come recentemente proposto dal prof. Pellegrino Capaldo e dall’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato.

Oltre a quelle fin qui elencate c’è un’altra alternativa: noi generazioni adulte possiamo cavarcela lasciando la patata bollente in eredità alle giovani generazioni già penalizzate in termini di paghe, di stabilità di impiego, di prospettive pensionistiche.

 

Per completezza, c’è anche una terza ipotesi, piuttosto barbara: che il debito pubblico non sia più rimborsato, come è successo nel caso dell’Argentina dopo la crisi del 2002. Anche in questo caso, comunque, qualcuno ha pagato: quelli che avevano investito i loro risparmi in titoli del debito pubblico argentino.

 

Nella difficile scelta c’è un’aggravante: che se non facciamo qualcosa presto, i mercati finanziari faranno pagare care anche agli italiani indecisione e incoerenza, come già stanno facendo con irlandesi e greci. Se invece il volume dell’attività economica (il Pil) crescesse abbastanza rapidamente (diciamo più del 3 per cento annuo oltre l’inflazione), la pesantezza di quel debito andrebbe via via attenuandosi. Ma, purtroppo, siamo ben lontano da quei livelli.

 

Davanti a questa situazione, mostrare indignazione di fronte alla proposta di colpire i titolari dei patrimoni più ingenti è piuttosto ipocrita, come pure gli scambi di accuse di «voler mettere le mani nelle tasche degli italiani». Il punto non è che l’imposta patrimoniale di Capaldo e Amato sia una proposta priva di difetti. Certamente ne ha. Quello che voglio sottolineare è che chi la critica dovrebbe indicare a chi altro vorrebbe far pagare il debito pubblico e come.

 

Finché un politico raccoglie più voti lasciando passare il messaggio «se mi eleggete, le tasse le pagherà qualcun altro», e invece diventa impopolare se prende una posizione più responsabile, non potremo nutrire speranze sulla serietà e la coerenza delle future scelte fiscali.

Benedetto Gui

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