Azerbaijan fra petrolio e tolleranza
Nonostante i palazzoni che la circondano, la Torre della vergine – Qiz Qalasi, una massiccia costruzione del VII secolo, il più antico monumento dell’Azerbaijan – si erge ancora altera. Non si conosce la sua funzione originaria – tempio zoroastriano, faro, fortificazione -, ma il suo fascino non scema. La torre è il baricentro della città vecchia, la zona più interessante di Baku: un dedalo di vie e viuzze dove si alternano edifici medievali ad altri dello sfarzoso Ottocento, o alle brutture dell’epoca sovietica. La storia a Baku s’affastella, senza memoria univoca: di chi è questa terra? La politica d’oggi è ancora attraversata da tale domanda, a cui un detto popolare risponde: Questa terra è di chiunque la abita. Presidenti, Urss e democrazia Rabbiyyat Aslanova, deputato, vicepresidente della commissione dei diritti umani è pure professore di filo- sofia e madre di tre figli, senza domestici: eppure appare fresca come una rosa, col telefonino sempre attivo e la risposta pronta e franca. È uno dei volti meglio esportabili del governo azero, che dalla caduta del regime sovietico è rimasto in fondo un affare di famiglia: al fondatore della patria, Heydar Aliyev, è succeduto il figlio Ilham. La democrazia non è ancora compiuta, in un paese che conosce la vertiginosa ebbrezza finanziaria del petrolio, anche se la popolazione in stragrande maggioranza resta poverissima. E la corruzione batte cassa ovunque. Anche la via del rispetto dei diritti umani viene percorsa a fatica. Penso che gli occidentali debbano cambiare l’idea che hanno delle nostre società. Ad esempio, sul ruolo della donna – mi dice -: non è la schiava dell’uomo! Qui da noi ci sono donne manager, deputato o giornalista. Certo, di diritti dell’uomo qui in Azerbaijan se ne è cominciato a parlare con ritardo rispetto all’Europa, anche se il nostro paese nel 1918 era stato la prima democrazia della regione, e aveva abolito l’obbligatorietà del velo per le donne. L’onorevole ha appena pubblicato un libro sul terrorismo: Chi pensa che Islam sia uguale a terrorismo sbaglia, perché mette assieme culture incompatibili . Attacca la teoria di Huntington dello scontro tra civiltà: Non è certo un’opera scientifica: è ideologia. Dobbiamo invece creare buoni esempi di coabitazione per il mondo intero. La globalizzazione ci dà la possibilità di dialogare tra culture diverse, e di avvicinarci mutuamente in spirito di fratellanza e di pace, al di là della religione professata. Il discorso si allarga al Caucaso e alle relazioni con l’Unione europea. I club internazionali sono senza dubbio positivi. Il negativo è che chi non ne fa parte viene escluso dalla divisione della torta. In Azerbaijan siamo felici che l’Unione europea stia cambiando opinione nei nostri confronti. I destini dei nostri paesi possono essere diversi, ma dobbiamo cercare di creare continue occasioni d’incontro. In un palazzo affacciato sulla piazza dove la gente si ritrova per giocare a scacchi da mane a sera – Kasparov era di Baku – incontro il più famoso scrittore dell’Azerbaijan, Anar, presidente della Associazione degli scrittori e deputato. Tutto nel palazzo è rimasto come trent’anni fa, come se il segretario del partito dovesse arrivare da un momento all’altro per controllare che non si deroghi dalle linee della rivoluzione proletaria. L’Azerbaijan è un paese islamico tra est e ovest, Europa e Asia, e tra nord e sud, Russia e paesi islamici. A noi cominciano ad interessarsi i media occidentali, e forse non è un caso. Abbiamo sperimentato diversi passaggi storici, nei quali la filosofia, la letteratura e la musica hanno continuato a sopravvivere. L’arte è la via più breve per conoscersi, e in questo l’Azerbaijan può veramente essere ponte. Petrolio o libri? Speriamo che il primo non imbratti i secondi. Può essere una chance per stampare di più, per girare più film, per diffondere la nostra cultura. Sotto il comunismo scrivevamo poco, ma le pubblicazioni avevano una straordinaria diffusione. Ora possiamo scrivere quel che vogliamo, ma di libri ne vendiamo poche centinaia di copie. La sintesi la faccio con Enes Çansever, il giovane direttore di Zaman, quotidiano metà in lingua turca e metà in lingua azera, il terzo nella graduatoria. La situazione in Azerbaijan? La democrazia sta entrando coi suoi tempi. Debbo dire che, rispetto a tanti altri paesi del Caucaso e dell’Asia centrale la situazione è migliore, dal punto di vista dei diritti dell’uomo, della democrazia, dell’economia, della vita sociale. Anche se i leader dell’opposizione sono in prigione dall’ottobre 2003, all’indomani delle elezioni che avevano assicurato la presidenza a Ilham Alyev col 75 per cento dei consensi: avevano promosso una manifestazione contro presunti brogli elettorali. Tre furono i morti, e centinaia i manifestanti incarcerati. La ferita che sanguina ancora L’aerea via dei martiri fu tracciata in ricordo del periodo susseguente al 20 gennaio 1990, allorché la morente Armata Rossa marciò su Baku e uccise più di un centinaio di civili. Accanto a queste tombe, si allineano quelle scure dei martiri della guerra del Nagorno- Karabakh, terminata nel 1993. Una ferita ancora aperta nella popolazione azera – tutti i miei interlocutori ne parlano prima o poi -, che ha provocato centinaia di migliaia di profughi. Accanto, le tombe dei turchi volontari nella guerra in Karabakh, e rimasti uccisi nel conflitto. La ferita sanguina ancora, si diceva. Gran parte dei profughi vive ancora in condizioni precarie, limitandosi ad usufruire dei sussidi pubblici e degli aiuti internazionali, sperando di poter tornare alle proprie case. Undici anni dopo la fuga. Nel palazzo presidenziale, ricevo in omaggio un libro che documenta la tragedia del Karabakh, corredato da foto raccapriccianti e da dati apparentemente inequivocabili: un genocidio, secondo azeri e turchi, che però sottostimano così l’altro genocidio ai danni degli armeni. Nel quartiere di Hita, a Baku, penetro in un casermone alto una dozzina di piani, fornito solo dello scheletro in cemento armato e di qualche tramezzo di forati. Il resto è totale precarietà: fili elettrici che si aggrovi- gliano in modo apparentemente inestricabile, panni stesi ad asciugare, cartone che protegge inesistenti finestre, infissi divelti o mancanti, strane concrezioni geologiche che si rivelano ad uno sguardo più attento come conglomerati di rifiuti e di materiali vari da costruzione. Un incubo. Vengo fatto entrare in uno stanzone d’una decina di metri di lunghezza. Tutte le superfici sono ricoperte di tessuti e tappeti, da poster, da specchi e da quadri. Alle pareti sono appoggiati una decina di letti. In un lato della sala, è stata ricavata una cucina. Come in una società matriarcale – e le famiglie del Karabakh sono tali -, la madre prende solennemente la parola. Siamo arrivati qui in 21, il 3 luglio del 1993. Ora siamo solo 14. C’è chi è morto, chi è emigrato, chi è nell’esercito. Viviamo in promiscuità. Tutto quello che vedete ci è stato regalato, perché dalle nostre case di Aldam eravamo partiti senza nulla. Gli armeni avevano ucciso sei membri della mia famiglia. Erano dipendenti statali e agricoltori, i Na- giyev. Godevano di un certo benessere, che ora manca loro totalmente. Persino le scuole è quasi impossibile frequentarle. Oggi ci danno cibo ed elettricità, ma nulla di più. Soprattutto, non ci danno speranza. Un comitato raggruppa gli immigrati, ma non riesce a ottenere nulla. Qui vivono qualcosa come 237 famiglie, oltre milleduecento persone. Disumano. Vogliamo tornare in Karabakh, a tutti i costi, anche coabitando di nuovo con gli armeni. Però dobbiamo ricevere indietro i nostri beni. Penso che se i militari se ne andassero, riusciremmo a vivere di nuovo con gli armeni. È detto tutto. Sotto il segno di Abramo Il palazzo degli Shirvan Shah, iniziato da Khalilullah I nel XV secolo, su una serie di terrazze che dominano la città, è il monumento più affascinante di Baku dal punto di vista architettonico. Dimostra il buon gusto di una generazione di governanti che non hanno mancato di far grande la città favorendo la convivenza tra fedeli delle tre religioni abramiche. Una realtà ancor oggi ben visibile a Baku. In Azerbaijan, ad esempio, gli ebrei sono poco più di 10 mila. Fuori dalla sinagoga di Baku staziona un nutrito gruppo di poliziotti azeri, sorridenti e socievoli, che non sembrano per nulla preoccupati dai pericoli del terrorismo. Nella sala della preghiera una ventina di ebrei, alcuni tradizionalisti e altri assai meno, si stringono attorno alla Torah con la ben nota mobilità ritualista degli ebrei. I cappelli a larghe falde nere di alcuni giovani, spavaldi e orgogliosi, contrastano con le kippah degli anziani, silenziosi e modesti. Al termine della lettura, il rabbino Mair Brook mi riceve nella piccola biblioteca della sinagoga. La sua folta barba nera avvolge un sorriso contagioso, mentre il suo vice, Iakov Abraham Gusetinski, ucraino ma proveniente da Israele, inalbera una barbetta aguzza. Mi dicono che la situazione degli ebrei in Azerbaijan è ideale. L’Azerbaijan – continua – è un esempio di collaborazione tra fedeli di diverse religioni. Due anni fa, ad esempio, per l’inaugurazione della nostra nuova sinagoga, sono intervenuti tutti i rappresentanti delle religioni musulmana e cristiana, imam e vescovi, pope e sceicchi. E a Pesah, lo scorso anno, allorché la comunità locale ha ricevuto una lettera di minacce terroristiche, i rappresentanti delle altre religioni si sono stretti attorno a noi, assicurandoci che un attentato contro gli ebrei sarebbe stato un attentato contro i musulmani e contro i cristiani. Sheik-Ul-Islam Alahshukur Pashazade è da 25 anni il riferimento spirituale dei musulmani di tutto il Caucaso. Lo incontro davanti alla onnipresente tazza di tè. Dio ha creato l’uomo e gli ha dato il linguaggio e la fede. Il fatto che ci siano diverse nazioni e diverse lingue implica comunque che hanno qualcosa in comune che richiede unità e fede in un Dio comune. Le persone religiose lavorano per i valori dell’amicizia e della cooperazione. In questi tempi difficili, il bisogno di comprensione reciproca è forte. Il ruolo della religione nel Caucaso? La situazione è molto difficile. Se quello che succede qui avesse solo un’origine religiosa, sarebbe facile risolvere il problema. Ma non ha nulla a che vedere con essa: piuttosto, ci sono persone che utilizzano idee e concetti di tipo religioso per ottenere i loro scopi. Spesso ho dichiarato che le guerre sono contrarie allo spirito di qualsiasi religione, dell’Islam come del cristianesimo. Alla chiesa ortodossa russa mi riceve un giovane ieromonaco, Aleksy, sotto un grande ritratto del patriarca Alessio II e accanto a un Pentium 4 dono della Chiesa… cattolica! Conviene: In Azerbaijan ci sono molte religioni, non solo le tre abramiche, e tutte vivono nella pace. Il governo favorisce la presenza dei cristiani, circa 100 mila. Ecumenismo? Incredibile ma vero, qui non ci sono problemi. Siamo in buone relazioni con gli altri cristiani. Il nunzio è nostro amico. Spesso ci incontriamo, e interveniamo alle rispettive feste. La sola chiesa cattolica presente in Azerbaijan serve invece una comunità composta in tutto e per tutto da 115 azeri e da 150 immigrati stranieri. Quasi tutti partecipano alla messa domenicale, che si tiene nella piccola sala della parrocchia, un’abitazione privata dove vivono i tre sacerdoti salesiani, in una parrocchia esistente dal 1997. Qui il papa ha voluto pregare nel maggio del 2003: venne per sostenere la piccolissima comunità, ma soprattutto per tenere accesa la fiammella di una convivenza interreligiosa straordinaria. Il parroco, padre Jan Capla, slovacco, è ottimista e sorridente: C’è futuro per la chiesa – mi dice -, perché qui la gente è aperta. Tanti musulmani vengono qui a pregare, e sono stati felicissimi quando hanno saputo che la chiesa nuova che costruiremo sarà dedicata a Maria Immacolata . La comunità è sensibile ai problemi sociali: Stiamo aprendo in questo momento un centro giovanile in uno dei quartieri più diseredati della capitale: spesso la gente vive con soli venti dollari al mese, l’ammontare della pensione di anzianità. Ma la gente non mostra la povertà, si veste bene e si profuma. L’emigrazione poi è alta, anche tra i cattolici, perché il lavoro è ancora molto poco. Il futuro del dialogo L’ultimo sguardo alla città di Baku non può avvenire che sul bordo di un Mar Caspio particolarmente mosso: dicono che nella capitale trecento giorni all’anno siano ventosi. Mi trovo così nel grande piazzale di quella che una volta era la sede del partito comunista, in puro stile sovietico: potrebbe essere stato edificato a Varsavia come a Minsk o a Mosca! Mi appare però incompleto, quasi orfano, finché ricordo che proprio nel mezzo del suo immenso cortile svettava un Lenin alto una ventina di metri. Abbattuto e fatto a pezzi nel 1991. Alle mie orecchie giungono le note di una giga popolare: piffero e fisarmonica e tamburo. Si festeggia un matrimonio: gli sposi vengono qui a farsi fotografare, così come a Roma ci si immortala dinanzi al Colosseo. Un matrimonio, e poi un altro e un altro ancora: ne conterò sette in dieci minuti, non di più. Tutte le coppie arrivano in lunghissime auto bianche, o in potenti Mercedes addobbate di fiori, nell’apparente sfarzo che vuole anestetizzare la dura povertà di tutti i giorni. Una coppia è ortodossa, una ebrea, le altre musulmane. Ma tutte in primo luogo azere. NEL TURBOLENTO CAUCASO Alì M.Hasanov è capo del dipartimento socio-politico della presidenza. Quale ruolo per l’Azerbaijan? La nostra politica è basata su un forte desiderio di pacificazione. I paesi del Caucaso sono ricchi di denaro e di cultura, ma purtroppo i suoi abitanti non spesso hanno la possibilità di usufruire di tutte le loro ricchezze. Il petrolio del Mar Caspio, ad esempio, potrà arricchire non solo il nostro paese, ma anche quelli limitrofi. In questa direzione stiamo cercando di mettere assieme i popoli caucasici, per un grande progetto di sviluppo.Nello stesso tempo non possiamo nasconderci che il problema del Karabakh è irrisolto, e bisogna che la legalità internazionale venga ristabilita con seri negoziati sotto patrocinio internazionale. Europa e Azerbaijan hanno affinità elettive? Le relazioni con l’Unione europea sono buone. Essa è nostro sponsor per la riapertura della via della seta. Stiamo lavorando anche ad altri progetti energetici comuni ed all’aumento degli scambi commerciali. Noi vogliamo che si arrivi a una maggiore unione con l’Europa, nei modi che verranno ritenuti possibili. Più saranno stretti e meglio sarà. Dialogo tra diverse fedi? È una falsa idea quella che non si possa vivere in pace.Abbiamo tanti valori comuni e tutti pensiamo che la vita venga da Dio. Le tre religioni monoteiste vogliono pace e coabitazione: il nostro paese ne è un esempio. Lo stesso papa è venuto qui perché, ha detto, in Azerbaijan da secoli non ci sono conflitti basati sull’intolleranza religios