Ayodhya, caso chiuso?

La Corte suprema ha definitivamente assegnato il sito da secoli conteso fra indù e musulmani, alla prima comunità invitando tuttavia il governo a conferire alla comunità musulmana una nuova moschea. Perché la questione è così importante?

Erano anni ormai che si attendeva questa sentenza. Ma questa volta si sapeva che il verdetto sarebbe arrivato a ore, al massimo a giorni. Infatti, l’attuale presidente della Corte suprema indiana – Ranjan Gogoi – che doveva emettere la sua decisione definitiva è al limite del pensionamento. Gli sono rimasti esattamente otto giorni prima del termine della sua carriera di magistrato. Ma la questione è annosa o meglio secolare.

Ayodhya, infatti, è l’emblema delle tensioni di carattere religioso – fra indù e musulmani – che hanno caratterizzato una buona parte della storia dell’India. Ovviamente, non è stata una storia solo di guerre di religione, tutt’altro. Basti pensare alla cultura Moghul che è nata dall’incontro del mondo dell’Islam con quello delle religioni del sanatana dharma dell’India. Ma non si deve dimenticare che la storia del sub-continente è stata scandita anche da episodi e questioni come quello che riguarda questo villaggio dello stato dell’Uttar Pradesh, il più popolato del Paese, con una popolazione di quattro volte superiore a quella dell’Italia. Qui nel 1528 venne costruita la Babri Masjid (moschea di Babri). La questione si è rivelata controversa perché, secondo la tradizione locale, quello è il luogo dove è nato il Ram, divinità particolarmente cara alla tradizione indù, al quale era stato edificato un tempio, successivamente distrutto. Per questo, in varie occasioni, nei secoli successivi, gli indù hanno tentato, a loro volta, di abbattere il luogo di preghiera musulmano.

Il contenzioso è andato avanti per vari secoli, a fasi alterne, fin quando nel 1992 il gruppo nazionalista indù Sangh Pariwar lanciò ai propri adepti e a tutti i militanti nazionalisti l’invito di recarsi ad Ayodhya per abbattere il luogo sacro ai musulmani e riedificare il tempio. Il governo di allora sottovalutò la questione ed i militanti arrivati a migliaia, il 6 dicembre 1992, assalirono davvero la moschea, abbattendo le tre cupole in meno di tre ore. Le forze dell’ordine assistettero alla scena senza intervenire, anche perché in numero molto inferiore ai dimostranti. Come se non bastasse, la stessa notte venne costruito un piccolo tempio indù sulle macerie della moschea. Fu la scintilla che fece scoppiare dimostrazioni e scontri in tutto il Paese, costringendo il governo centrale ed alcuni di quelli locali a imporre il coprifuoco in molti Stati e anche nelle metropoli, come a Mumbai dove morirono anche varie decine di persone. Le vittime in tutta l’India toccarono un numero ufficiale impressionante: 2 mila persone.

Alla fine, la zona della moschea contesa venne circondata dalle forze dell’ordine e l’ingresso interdetto a chiunque. Ma la tensione continuò, spesso abilmente manipolata dai politici locali e da quelli a livello nazionale. Ovviamente, in questi ultimi anni Ayodhya è sempre stata nell’agenda del governo di Narendra Modi, che si ispira all’ideologia dell’India agli indù – l’Hindutva – e che, dunque, non poteva non affrontare la questione a favore della maggioranza della popolazione e dei suoi sentimenti religiosi e identitari. Per questo, dopo che nel 2010 l’Alta Corte di Allahabad, nello stesso stato dell’Uttar Pradesh dove si trova il sito conteso, aveva stabilito che l’intera area fosse divisa in tre parti tra indù e musulmani (due e una rispettivamente), i nazionalisti sono ricorsi in appello presso la Corte suprema.

La decisione, sebbene presa all’unanimità dai cinque giudici che compongono la Corte suprema, è destinata a creare reazioni e a mettere a dura prova la tenuta degli equilibri socio-amministrativi dell’immenso Paese, già sotto pressione a causa delle posizioni estremiste e nazionaliste del governo Modi. È bene, comunque, sottolineare che nella sentenza i giudici hanno anche affermato che la distruzione della moschea di Babri, avvenuta nel 1992, era «contro lo stato di diritto», confermando di fatto le responsabilità di alti funzionari del governo del Bharatiya Janata Party che avevano preso parte alla demolizione. La stessa Corte suprema ha poi indicato alle autorità governative che sarà loro cura assicurare che i musulmani possano ricevere un appezzamento di terra adeguato sul quale ricostruire la loro moschea.

È il secondo duro colpo che subisce la comunità musulmana del Paese – circa duecento milioni, il che fa dell’India, insieme al Pakistan, il secondo Paese musulmano del mondo dopo l’Indonesia –, dopo che nell’estate scorsa lo Stato del Kashmir, a maggioranza musulmana, conteso fra India e Pakistan, era stato ridotto a “Territorio dell’Unione” direttamente sotto l’amministrazione del governo di Delhi. Con queste due mosse, lo stato di insicurezza delle minoranze, soprattutto quella musulmana, ma anche dei cristiani e dei sikh, è destinato a radicarsi sempre più sia a livello personale che delle diverse comunità. Modi, che, come accennato, aveva fatto della questione Ayodhya uno dei punti principali della sua agenda politica per guadagnare i voti della maggioranza indù – il 78% del miliardo e duecento milioni di indiani – intasca un’altra vittoria, anche se la sua reazione immediata è stata molto controllata. Infatti, ha scritto sul suo profilo Twitter che la sentenza «non è né una vittoria né una sconfitta per nessuno». Ha poi aggiunto: «Possano prevalere pace e armonia».

Nel corso della giornata, Modi si è, poi, rivolto al Paese definendo storica la decisione della Corte suprema perché mette fine a una questione irrisolta da secoli. Ha poi citato il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino e l’apertura avvenuta oggi di un corridoio fra India e Pakistan per permettere ai pellegrini indiani di religione sikh di recarsi a Kartarpur nel Punjab pakistano che custodisce il tempio dove ha vissuto i suoi ultimi anni Guru Nanak Devji, fondatore della religione sikh.

Mentre gli indù hanno esultato al canto di «Jai Sri Ram» (ode al dio Ram), i musulmani esprimono profonda insoddisfazione. Il legale dei fedeli dell’Islam, Zafaryab Jilani, promette: «Esamineremo il verdetto. Per noi qualsiasi ricorso legale è aperto». Per ora le comunità musulmane ed i loro leader non hanno parlato a una sola voce e paiono su posizioni abbastanza diverse e, comunque, lontane da un ricorso unanime. Resta da vedere come, in un Paese dove gli equilibri fra i diversi gruppi religiosi restano sempre assai delicati, reagiranno l’opinione pubblica e, in particolare, le masse dei musulmani. L’India, a fronte di un innegabile spirito di tolleranza religiosa e culturale, ha dimostrato in passato che una scintilla può innescare reazioni imprevedibili.

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