Avvocati in cerca di giustizia
Lo scorso novembre è stata approvata dal Parlamento la c.d. “Legge di stabilità 2012[1]”, ovverosia la legge finanziaria per il 2012 varata dal dimissionario Governo Berlusconi, che adotta provvedimenti su svariati campi, tra i quali quello della Giustizia.
Il testo definitivo approvato dal Parlamento contiene alcune misure che verranno applicate dal gennaio 2012, tra le quali, senza esaustività ed in sintesi: maggiori costi per chi intende impugnare le sentenze in cui risulta soccombente, ingenti multe per talune istanze “manifestamente infondate” effettuate dagli avvocati in Corte d’Appello ed in Corte di Cassazione, la previsione di definitiva abolizione dei “minimi tariffari” (ovvero, il compenso minimo) previsti per gli avvocati, che già si erano resi derogabili da precedenti provvedimenti normativi risalenti al c.d. “Decreto Bersani[2]”, e di rendere obbligatoria la pattuizione per iscritto del compenso spettante all’avvocato all’atto dell’assunzione dell’incarico.
In buona sostanza, per sfrondare l’insostenibile carico di procedimenti in corso presso le diverse Autorità Giudiziarie, si è deciso da una parte di aumentarne il costo, per cui la richiesta di Giustizia – al pari di ogni altro bene economico – andrà a calare; dall’altra si sono adottate una serie di misure che lasciano evidentemente intendere lo sfavore del Legislatore, se non della società civile, nei confronti della classe forense. Ad esempio, se un avvocato chiederà al Giudice di sospendere l’esecuzione di una sentenza che ha impugnato con un’istanza palesemente infondata, al suo cliente verrà applicata una sanzione da 250 a 10.000 euro: ciò dovrebbe sfoltire le istanze innanzi le Corti d’Appello e di Cassazione, accelerandone i lavori. Ed ancora, chi si rivolgerà ad un avvocato avrà diritto di veder messo nero su bianco quanto andrà a spendere prima che il lavoro venga effettuato: il che parrebbe a primo avviso equo e giusto, salvo che gli operatori del diritto ben sanno come, in buona parte dei casi, sia quasi impossibile prestabilire gli adempimenti necessari per svolgere un incarico, e conseguentemente prestabilire un compenso; sarebbe come ipotizzare il numero di mosse necessarie per vincere (si spera) una partita a scacchi. Anche in questo caso pare pertanto evidente lo sfavore nei confronti del professionista, sospettato di allungare tempi ed attività al fine di veder aumentata la propria parcella, a danno sia del proprio cliente che dello stesso sistema giudiziario.
Il “pacchetto stabilità” non è stato contestato con veemenza da parte degli avvocati: è stato infatti approvato in un clima di già alta tensione conseguente all’obbligo – già precedentemente imposto – di svolgere un tentativo di conciliazione innanzi ad organismi appositamente istituiti per un elevatissimo numero di cause civili prima di poter accedere alle Aule di Giustizia[3], ed alla vigilia della nuova manovra finanziaria predisposta dal Governo Monti, che ha annunciato di voler intervenire significativamente sugli ordini professionali “liberalizzando la professione”. Liberalizzazione che non è mai stato chiarito se e come avverrà, ma che ha già provocato la levata di scudi da parte degli Ordini e degli organismi a tutela della categoria.
Il contesto socio–politico in cui si svolge la professione dell’avvocato si ripercuote pesantemente sull’andamento della giustizia italiana, forse per una crisi di senso e di identità della professione stessa.
Il preambolo del vigente Codice Deontologico Forense[4] esordisce con l’enunciato: «L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia».
Un enunciato carico di significato: l’avvocato funge da tramite fra società civile e sistema giudiziario, e ciò avviene attraverso il diritto; il cittadino – o meglio, la persona – che chiede giustizia si rivolge ad un avvocato esponendo “il caso”, e dall’avvocato riceve diritto, ovverosia la norma applicabile al caso di specie e le conseguenze previste dall’ordinamento giuridico per tale situazione[5].
Funzione difficile, a volte drammatica, quando il senso della giustizia di chi si sente offeso nei propri diritti non corrisponde con quello previsto dall’ordinamento. «Capisco le sue ragioni, ma le leggi dicono così…» può essere l’affermazione che sintetizza la lacerazione che si consuma in chi cerca giustizia e trova diritto non conforme alle proprie aspettative: una distanza che ha indotto illustri giuristi ad affermare il tramonto dell’era del diritto come concepito nella società moderna[6].
Si capisce pertanto come l’attuazione dell’ordinamento per i fini della giustizia, cui l’avvocato è chiamato a contribuire, sia funzione indubbiamente elevata e nobile, ma che richiede di operare in uno spazio in cui la distanza fra l’ordinamento giuridico ed il mondo reale può essere tale da non rispondere alle esigenze di giustizia cui proprio il diritto è chiamato ad assolvere. E ciò con possibili varie degenerazioni: ad esempio, l’esercizio di una giustizia in senso puramente formale, che rimane celebrazioni di riti con procedimenti logici suggestivi e persuasivi, ma non aderenti alla realtà[7]; oppure ancora una rassegnazione ad una giustizia del tutto cieca, tale per cui i giuristi non sono in grado di fornire pareri univoci sulle conseguenze giuridiche dei fatti, e di fronte alle prospettive di un processo, anziché perseguire il “verdetto” (verum dicere), ci si affida alla buona sorte, perché sin dai tempi antichi ed ancora oggi habent sua sidera lites[8].
Così espressa una delle fonti del malessere della giustizia italiana, non possono non suscitare disagio provvedimenti normativi che affrontano la questione alla stregua di una lotta di classe, ove da una parte una categoria non meglio definita di giuristi tenterebbe di salvaguardare proprie prerogative e privilegi, e dall’altra si ipotizza che l’inserimento dei principi del libero mercato nel mondo della giustizia possa contribuire in qualche modo a migliorarla.
Entrambi concetti errati: l’avvocatura è composta da una schiera di professionisti estremamente eterogenea[9]. I praticanti e giovani avvocati italiani hanno redditi, garanzie e tutela giuridica inferiore a qualsiasi categoria di lavoratore subordinato: elevati redditi si registrano per professionisti affermati nel corso degli anni, oppure inseriti in studi ben avviati, per merito o magari anche per ragioni di parentela. La regolamentazione della professione deve pertanto sgomberare il campo dal luogo comune che ritiene quella dell’avvocato un ceto più che benestante; lo era forse un tempo, quando il numero dei laureati in Italia – e conseguentemente il numero di abilitati alla professione – era ridotto, mentre oggi un giovane avvocato è afflitto dalla medesima crisi occupazionale che generalmente investe i neo-laureati.
D’altra parte, pur se la regolamentazione della professione – dall’accesso alle modalità di svolgimento – è un’esigenza, essa non va confusa con una risposta alla crisi della giustizia italiana, che richiede interventi ben più strutturali sia nei principi che nell’organizzazione.
Il tutto non può che poggiarsi sul recupero della fiducia della società civile nella giustizia, e quindi nei confronti delle persone che la esercitano: fiducia che va da una parte riconosciuta e dall’altra meritata. Senza di ciò, il divario fra fatti e regole non può colmarsi, e la giustizia resta una dea bendata.
[1] Legge 12 novembre 2011 n. 183 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilita’ 2012) (pubblicata in suppl. ordinario n. 234 alla Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265).
[2] Decreto Legge 223/2006 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 153 del 4 Luglio 2006), definitivamente convertito con Legge n. 248 del 4 agosto 2006.
[3] C.d. “media-conciliazione” istituita con D.Lgs. n. 28 del 4 marzo 2010 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5.3.2010).
[4] Approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997 ed aggiornato con le modifiche introdotte il 16 ottobre 1999, il 26 ottobre 2002, il 27 gennaio 2006, il 18 gennaio 2007, il 12 giugno 2008 e il 15 luglio 2011.
[5] Il procedimento logico con cui l’operatore applica il diritto è definito “sussunzione”: il fatto (fattispecie concreta) viene fatto rientrare in una o più norme previste nell’ordinamento giuridico (fattispecie astratta); ogni norma (o la maggior parte) è composta da un precetto ed una sanzione, ovverosia una parte descrittiva di un comportamento, ed una conseguenza prevista dalla norma per il caso in cui si avveri la situazione. La sussunzione del fatto alla norma consente all’operatore del diritto di descrivere quali sono le conseguenze giuridiche dei fatti presi in considerazione.
[6] P. Rossi (a cura di) Fine del diritto?, il Mulino (collana “Prismi”), Bologna 2009: sollecitati dall’autore, riflettono sulle prospettive del diritto giuristi quali Luigi Capogrossi Colognesi, Sabino Cassese, Vincenzo Ferrari, Maurizio Fioravanti, Gilberto Lozzi, Pietro Rescigno.
[7] Cf. F. Galgano Le insidie del linguaggio giuridico, il Mulino (collana “Saggi”), Bologna 2010: l’autore denuncia come l’applicazione del diritto, il quale – come detto – richiede di dare ad entità astratte il nome di una cosa del mondo sensibile, sfugga spesso al controllo del senso comune, per cui l’applicazione del diritto finisce per essere un’attività meramente retorica.
[8] «Anche i processi sono influenzati dalle stelle»: brocardo latino che esprime l’aleatorietà ed incertezza di un processo. Espressione che venne pure utilizzata dalla Corte di Cassazione, la quale trovandosi a decidere se fosse responsabile un avvocato che aveva omesso di interporre un appello, negò il risarcimento del danno per la perdita del possibile esito favorevole del processo (Cassazione civile 10 febbraio 1931 n. 495): poiché habent sua sidera lites – la frase è riportata nella stessa sentenza – non è possibile una stima preventiva dell’esito del processo: «nel calcolo concorrono elementi di difficile valutazione, quali l’opinione personale del giudice, l’apprezzamento che egli dovrà fare delle prove, l’apprestamento delle stesse per opera dei vari litiganti, il regolare corso del processo, l’attività delle parti, le loro risorse defensionali, ecc.». Oggi l’orientamento giurisprudenziale è mutato e si riconosce il risarcimento del danno per responsabilità professionale dell’avvocato, compiendo una prognosi sulla fondatezza del diritto dell’appellante; con ciò non vuol certo affermarsi che le sorti di un processo siano meglio prevedibili.
[9] Al giugno 2010 erano iscritti agli Albi n. 207.240 avvocati: circa 3 avvocati ogni 1.000 italiani. Uno studio condotto da ricercatori dell’Università Bocconi di Milano e Università di Salerno su “Liberalizzazioni professionali. Evidenza empirica sugli avvocati italiani” in occasione del workshop “Dinastie professionali” organizzato dalla fondazione Rodolfo De Benedetti il 4 luglio 2011 ha approfondito i flussi in uscita degli avvocati dalla professione in relazione a età e reddito: la stima per i primi dieci anni di professione è un’età media di 35 anni (accesso alla professione mediamente a 31 anni) con un reddito medio annuo di circa 20.000 euro, chiaramente crescente nel corso degli anni.
Una riflessione sulle difficoltà della professione forense e sulla sfiducia con la quale gli ultimi provvedimenti del governo Berlusconi sembrano guardarla