Avventure del ringraziare

Mi è capitato e ci sono rimasto male. Avevo pensato, di chi mi chiedeva la strada e non ringraziava per l’informazione, Guarda come lo rovina la società dell’usa e getta . Poi è capitato una, due volte a me sovrappensiero e preoccupato, di non ringraziare per l’informazione ricevuta. E adesso come la mettiamo? Culturalmente, dico, non spiritualmente – è chiaro che da questo versante si tratta di mancanza, di imperfezione, chiamiamola come ci pare. Ma – culturalmente? dal momento che non faccio che biasimare i guasti dell’alienante consumismo? Ci siamo trovati tutti davanti a una macchinetta che prendeva monete, e proprio l’ultima te la ridava indietro una, cinque, dieci volte; la tentazione poco sensata di prenderla a insulti se non a calci era forte. E ci capita sempre e sempre più di premere bottoni, tasti, schermi, ricevendo qualcosa – oggetti, informazioni, immagini, suoni – per i quali ci guardiamo bene dal ringraziare. Chi dovremmo ringraziare? Eppure all’origine di quegli automatismi, magari attraverso altre macchine programmatrici e costruttrici, ci sono persone. Ecco il punto. Ci sono persone, come e più di quando premi il tasto dell’ascensore e accanto hai, un po’ imbarazzati, estranei. Un grande poeta recentemente scomparso, C. Milosz, ha detto: Se potessi ricominciare da capo, ogni mia poesia sarebbe il profilo o il ritratto di una persona concreta, o più precisamente, un lamento sopra il suo destino. Lamento, o si può anche pensare giubilo, attenzione, tenerezza, sgomento… così via, ma non indifferenza. Perché una persona non è un individuo che, tolto lui, ce n’è un altro intercambiabile. Le due parole, persona e individuo, non sono affatto sinonime, anzi, riflettendoci, sono proprio contrarie. Ora: vale la pena di continuare questo discorso? non diventa astratto e moralistico? Io penso che valga la pena scoprire il punto esatto, il momento preciso, in cui vale la pena vivere. Deve essere un fatto molto concreto e simultaneamente un atto molto appagante, una realtà solida, incontestabile (non le tante vanità virtuali), e una verità vitale molto alta e molto profonda. Esiste mai questo momento, veramente? Sui binari dell’usa-egetta, no di certo. E il bello è che i binari dell’usa-egetta possono essere materialistici ma anche spiritualistici e religiosi (chiedetelo al New-Aged che vuole assaporare un Dio-Fitness, e al monsignore che vuole fare carriera), culturalmente aggiornati (il giornalista o l’ideologo testardamente convinti che un loro scoop o una loro idea non solo valgono ma valgono più di ogni persona circostante e destinataria-vittima del loro esuberante io), scientificamente intransigenti (chi non la pensa come me-progresso è un poveretto alla retroguardia della storia). I binari dell’usa-e-getta comunque programmato e vissuto sono quelli dell’individuo chiuso, che prima o poi è destinato a scoprire che, e quanto, non vale la pena di vivere (per l’individuo chiuso). Tutta la storia più recente sta dimostrando a chiunque non voglia accecarsi che la dimensione individualistica, pur così esasperatamente stimolata e sollecitata dalle sirene consumistiche, è alla fine, al capolinea. Per sfociare in una dimensione collettivistica da madrepore, da banco corallino, o da formicaio? No, è qui l’errore. Il contrario dell’individualismo non è il formicaio, che anzi ne è la conferma perché è ancora un’individualità, seppure collettiva (con imitazioni umane tra stalinismo, hitlerismo ecc.); il contrario dell’individuo individualista è una persona. E senza fare dotti discorsi filosofici e teologici sulla nascita storica della persona (peraltro interessantissimi), possiamo ricordare, molto semplicemente ma con profonda utilità, che la persona non è l’individuo perché non vive di sé ma dei rapporti con gli altri, vive donando sé stessa e cioè non preesiste, ma nasce con, nell’atto di dare, di darsi (per questo il Vangelo dice che occorre nascere una seconda volta). Questa è la rivoluzione ben più che copernicana dal ripiegamento su se stessi nella gioia o nel dolore, al vivere fuori di sé, all’estasi (ek-stasis) dei rapporti: immensa salvezza offerta a chiunque ovunque. È lì che troviamo anche la radice del ringraziare come atto di riconoscimento, e di riconoscenza, per il dono fondamentale, e per tutti i doni che ne conseguono, anche quello stesso del (poter) ringraziare.

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