Aveva scelto di tornare fra la sua gente
L’Andra Pradesh, grande Stato del sud est dell’India, è da anni in pieno boom economico. La capitale, Hyderabad, è oggi una metropoli di 7 milioni di abitanti, protagonisti di uno sviluppo economico vertiginoso: uno dei centri mondiali dell’informatica insieme a Bangalore. Ma è sufficiente addentrarsi nelle campagne per scoprire una situazione di povertà, spesso disperatamente endemica. La natura ha, infatti, alternato terre di un verde lussureggiante, tipico delle risaie del Telangana, a zone rocciose e quasi completamente prive di acqua. A tre ore da Hyderabad si incontra Suryapet, posto del sole, come vuole l’etimologia mezzo sanscrita e mezzo telegu del nome. Nel 1983, quando vi giunsi la prima volta, era poco più di un paesotto dove la polvere la faceva da sovrana. In alcuni angoli ci si chiedeva se non fosse un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini. Qui incontrai Raja Basani Reddy, medico indiano: Reddy come tutti lo chiamavamo, un nome comunissimo, un po’ come Rossi in Italia. Indica la casta di appartenenza: un gruppo fatto di medi o grandi proprietari terrieri che spesso vivono sulla rendita dei loro terreni. Il giovane Reddy aveva studiato medicina a Roma, Siena, e Parma, ed aveva poi deciso – era questa la grossa novità – di tornare fra la sua gente. Alla fine degli anni Sessanta, infatti, i pochi indiani che avevano avuto il privilegio di studiare all’estero si guardavano bene dal tornare nel loro Paese. Reddy, invece, aveva avuto il coraggio di andare controcorrente: dal boom economico dell’Italia degli anni Sessanta, alla polvere e alla povertà disperante di Suryapet. Chi glielo aveva fatto fare? Come un po’ per tutti noi, la vita di Reddy è stata scandita da incontri importanti, decisivi. Il primo fu con un sacerdote italiano, un eroico missionario del Pime: quel marmocchio intelligente e vivace non era sfuggito a padre Beretta, parroco del villaggio. Lo teneva d’occhio e si assicurò che completasse gli studi. Un giorno, però, padre Beretta sparì: lo avevano fatto vescovo di Hyderabad, e si pensava che nessuno lo avrebbe più visto. Ed invece dopo qualche anno tornò come vescovo della nuova diocesi Warangal. Qui ritrovò Raja Basani, ormai giovane aitante, al termine dei suoi studi. Dopo poco Reddy si trasferì in Italia a studiare medicina con una borsa di studio. E a condizione che, completati gli studi, sarebbe dovuto tornare fra la sua gente. Il secondo incontro decisivo fu a Roma, prima tappa dei suoi studi. Ma gli inizi non furono facili. In quei mesi si colloca l’incontro di Reddy con quelli del piano di sopra: erano Antonio Petrilli,Mario Brini, Sergio Infantino, Piero Pallavicino e Guido Brini, cioè il focolare di Roma. Erano i primi tempi del movimento nella capitale. L’ideale dell’unità conosceva le forze straordinarie degli inizi. Il giovane studente indiano era diventato di casa fra loro, la domenica a messa era sempre a Sant’Andrea della Valle, con tutta la comunità romana, ancora piccola, ma in crescita e motivata. A contatto con loro il futuro dottore iniziò una nuova scuola: quella di una vera vita cristiana. Era una fede nuova, molto diversa da quella del suo villaggio, e rendeva più interessante anche la medicina. Non si trattava più di imparare formule o anatomia, medicine o antidoti, di fare diagnosi o di prescrivere cure. Era piuttosto una questione di vivere il Vangelo in ospedale. C’era poi l’idea che anche lui, medico, poteva vivere il cristianesimo: non era necessario diventare sacerdote, era possibile farlo anche da laico! Questo, nella sua mentalità d’indiano, era una rivoluzione. L’esperienza lo coinvolse totalmente. Ad un certo punto – confidava – avevo seriamente pensato se Dio non mi stesse chiedendo di lasciare tutto per lui. Ma c’era la promessa fatta a mons. Beretta. Seguire quella vocazione invece l’avrebbe portato per il mondo, ma chissà dove. Anche gli amici del focolare gli ricordavano il motivo per il quale il vescovo lo aveva mandato a studiare in Italia. Alla fine si sposò con Gertrud, la ragazza che i genitori gli avevano scelto, come la tradizione vuole. Il piano di Dio si stava poco a poco svelando. Con lei tornò in Italia a completare la specializzazione. Qui nacque Prem Sagar (Oceano d’amore). Fu battezzato una domenica mattina a Sant’Andrea della Valle, circondato non dal villaggio, come accade nell’India rurale, ma da tutta la famiglia spirituale del focolare. Terminati gli studi, nel 1969, eccolo definitivamente in India. Gertrud l’aveva preceduto con il piccolo Prem Sagar, e Karuna (Compassione) in arrivo. Qualche anno dopo la famiglia fu completa con la nascita di Jyoti (Luce di Dio). Gli inizi furono tutt’altro che facili. Lavorava in un ospedale tenuto da suore. Scriveva ai suoi amici in Italia: Qui le suore mi hanno soprannominato il prete, perché vado tutti i giorni a messa per ricevere Gesù. Così cerco di voler bene a tutti, senza parlare molto. I frutti verranno forse quando meno ce lo aspettiamo. Il lavoro è senza tregua.Mai un giorno di libertà nella settimana. Oggi è domenica: doveva essere vacanza, ma è arrivata una paziente con emorragia da gravidanza extrauterina e l’abbiamo operata subito. Vedo la famiglia solo a pranzo e a cena. Confidava a Chiara Lubich: Vorrei essere come quel chicco di grano che marcisce per portare frutto. Sono tornato in India come l’asino che aveva portato Gesù a Gerusalemme. Forse attraverso di me questo movimento arriverà un giorno in India. Passarono undici anni: un’eternità. Nel maggio del 1980, finalmente, si aprì a Mumbai (allora ancora Bombay) il primo focolare in India. E nel maggio dell’anno successivo si riuniva la prima Mariapoli. Nessuno poté trattenere Reddy. Caricò Gertrud, Prem, Karuna e la piccola Jyoti su un taxi e partì per Hyderabad e di lì presero il treno per Bombay. Durante quell’incontro Reddy parlò ai 300 presenti della sua scoperta che il Vangelo poteva essere vissuto da un laico, nella professione, in famiglia, nella parrocchia. Era una grande novità vedere un indiano, professionista e uomo dei villaggi, dare una testimonianza di laico autentico. Il suo contributo era fondamentale anche per i focolarini, allora tutti stranieri. Conoscevano pochissimo della mentalità indiana e lui ne capiva le difficoltà. Sapeva suggerire, dire la parola giusta, mettere in guardia e prevedere. Sembrava ormai tutto avviato per il meglio. Ma proprio in quel periodo cominciò lo sviluppo della zona, e nel giro di qualche anno Reddy si trovò a fare i conti con un paio di altre cliniche. Dalla fine degli anni Ottanta, in effetti, nelle zone rurali del Paese in particolare, si era diffusa l’abitudine di conoscere in anticipo il sesso del feto, per decidere poi se continuare la gravidanza o meno, nel caso si trattasse di una bambina. Questa pratica, ora vietata dalla legge, per i contadini era una via alla sopravvivenza in tempi in cui, a causa delle piogge insufficienti, non c’era raccolto e una bocca in più da sfamare poteva essere un dramma. Spesso era impossibile per un medico, davanti alle storie che si ascoltavano, discernere cosa fosse meglio fare. Era un problema di coscienza, a volte lancinante. Ma alla fine Reddy capì: Sono diventato medico per difendere la vita e garantirne una durata più lunga possibile, non per impedirla o per scegliere la morte. La gente dei villaggi attorno non ci mise molto a capire che lui, a differenza degli altri dottori, certe operazioni non le avrebbe mai fatte. La voce si sparse e Reddy si trovò in ginocchio. L’unica fonte di sopravvivenza, per vari mesi, furono gli interessi di un deposito bancario. Intanto si presentavano altre difficoltà. Le figlie avevano ormai raggiunto l’età del matrimonio e secondo la tradizione si doveva cercare un marito, pagando una dote. Le restrizioni economiche si facevano sentire. Le sue scelte avevano creato frizioni in casa. La sua era pur sempre la famiglia del dottor Reddy, ma nella congiuntura che attraversavano non potevano certo permettersi uno stile di vita come quello di altri medici. Qualche tempo dopo, Reddy si trasferì nella capitale dello Stato, ricominciando tutto da capo pur avendo ormai passato i sessanta: tutti i figli erano sposati. C’erano già tre nipotini e Gertrud aveva il suo da fare. Padre Pezzoni, missionario del Pime, lo invitò a lavorare nel suo lebbrosario che lui, per via dell’età avanzata, ormai non riusciva più a gestire da solo. Reddy riconobbe nell’idea una vera risposta dall’alto, oltre che una possibilità di restare fedele alla promessa fatta a mons. Beretta. Ricominciò con l’entusiasmo di un ventenne anche se non mancavano problemi di salute. Il 17 giugno 1999 Reddy venne investito da una jeep mentre usciva dall’ospedale. Lo operarono, ma non ci fu nulla da fare. Quanti lo avevano conosciuto ebbero l’impressione di essere rimasti orfani: Reddy con la sua discrezione era diventato un padre per tanti. Nel marzo del 2005, durante una sosta a Hyderabad, incontrai tutta la famiglia riunita. Al momento di partire Prem, il figlio maggiore, prese la parola con grande serietà: Sai, ci siamo resi conto di chi fosse papà solo quando non c’era più. Era uno che aveva dato la vita per i poveri e noi, nessuno, a casa lo capiva. Vorremmo fare qualcosa per ricordarlo, perché in questa terra tutti sappiano che lui ha voluto vivere per i diseredati . Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata da Jyoti: mi diceva che la domenica precedente erano stati dalle parti del paese natale di Reddy. Avevano visto uno dei loro terreni, e lì per lì avevano deciso: lì avrebbero aperto un orfanotrofio in nome del padre. Così Reddy continua a vivere nei suoi villaggi, nel profondo dell’Andra Pradesh.