Aveva a cuore la sacralità dell’uomo
«Non guardare mai la malattia prima della persona, come se la malattia fosse la sua identità. Sforzati di guardare l’altro come una madre vede suo figlio. Per il proprio figlio ogni madre stravede, un figlio è un tesoro». Fine anni Settanta. Da allora questa indicazione di Cosimo Calò mi è risultata preziosa per avere un giusto comportamento non solo con i malati, ma anche con i sani.
Chiara Lubich, che ha avuto Cosimo come medico per lunghi anni, alla sua morte avvenuta nel 1992 commentava: «Io non ho mai trovato uno come Cosimo, che non misura. Perdeva le notti, perdeva le giornate. Sembrava che non avesse famiglia. A volte non mangiava, dormiva anche su divani duri, e non ha mai misurato. E questo lo faceva con tutti, e tutti ne sono testimoni. Se volessi definire Cosimo, direi che era la misura dell’amore, la misura della non-misura».
E non stupisce la gratitudine dei figli di Igino Giordani, il primo focolarino sposato, verso il dottor Calò che aveva curato e assistito il padre nei suoi ultimi anni. Mario, uno di loro e medico anche lui, attribuiva a Cosimo «la stupenda vecchiaia di papà».
Già a 32 anni era medico primario a Manduria, sua città natale, il più giovane in tutta Italia. Ma nella sua “carriera” scientifica aveva preso sempre più spazio, quasi in controtendenza con altri colleghi medici, la visione del malato come un mistero da trattare come tale.
Nella sua biografia scritta da Silvano Cola (1) si legge: «Questi pazienti, denudati dalla sofferenza, mi sono apparsi come pietre vive nella costruzione dell’umanità e dei suoi valori. Il loro vestito è la sfinitezza, ma anche la trasparenza; essi sono portatori di una luce particolare, la luce di Dio. (…) [Hanno un contatto] con Dio stesso. Il silenzio di Dio si rivela come una sua particolare presenza. Sembra che Dio si incarni in quelle esistenze ormai disgregate. Spesso le parole dei moribondi sembrano dettate da lui. Di fronte a loro si fa consistente l’impressione che la sofferenza sia una porta d’ingresso di Dio sul mondo».
Ho chiesto una volta a Cosimo qualche sua impressione sull’Africa. Mi ha risposto: «Quando qui, in Occidente, ascolti la radio o guardi la televisione, ti accorgi che esistono dei modi di pensare paralleli, distanti l’uno dall’altro. Esiste un modo religioso di concepire la vita e un modo cosiddetto laico. Da come uno si esprime tu puoi dire da che parte sta perché è diversa la visione del mondo che sta alla base del pensare. In Camerun, dove abbiamo vissuto noi, il pensare è religioso. Non nel senso confessionale. Pensare religioso è una visione dell’uomo che tiene presente anche il mistero. Guarda quanti danni produce la visione materialista dell’uomo a una dimensione. In Africa, la sacralità dell’uomo è un concetto semplice perché è la consapevolezza del mistero che ci avvolge. È uno stato di alta umiltà, di nobile umiltà. Io capisco il mal d’Africa. Lì ti senti a casa perché vali come uomo non per la professione che svolgi. Tu sei un valore in quanto uomo».
«Incapace di offendere una persona, riflessivo, libero, in dialogo con tutti»: così lo descrive la moglie Rosa, che mi cita, da una lettera scrittale dal Brasile otto mesi prima della morte, una frase che rimane per lei, e forse non solo per lei, un monito: «Preghiamo il Signore, sempre, di vivere con dignità la nostra vocazione, e di (…) poter lasciare ai nostri figli una memoria di Dio tra noi». I premi, i riconoscimenti avuti soprattutto dopo la morte, assieme a intitolazioni di piazze, confermano, come diceva Cosimo a Rosa, che la vera eredità da lasciare è l’amore, «la memoria di Dio».
Lo ritrovo ogni giorno
Cosimo mi aveva fatto una proposta affascinante alla quale non avevo saputo dir di no: «Se sei d’accordo, appena ci sposiamo partiamo per l’Africa». Eravamo nel 1965 e Cosimo era già specialista in cardiologia, era un primario molto stimato con una vasta clientela: se rinunciava a tutto questo, doveva essere per qualcosa di molto più grande. Si trattava di aiutare in Camerun i focolarini e le focolarine da poco pionieri in Africa.
In Camerun siamo rimasti due anni e mezzo, lì sono nati i nostri primi due figli, Leonardo e Paolo. Fra difficoltà d’ogni genere, a cominciare dalla casa in cui abitavamo, poco più di una capanna, abbiamo cercato di indovinare cosa Dio voleva da noi momento per momento. Però niente ci spaventava. Più importante era amarci sì da sperimentare Cristo presente fra noi, e questo comportava perdere le proprie idee e i propri punti di vista per venirci incontro e aiutarci concretamente. Durante un periodo in cui non potevamo avere l’Eucaristia, abbiamo capito come non mai l’importanza di questo sacramento, proprio perché ne sentivamo tanto la mancanza.
Una volta tornati in Italia, Cosimo ha dovuto ricominciare tutto dal punto di vista professionale (allora era così). Ha dovuto rifare addirittura gli esami di Stato, i concorsi a primario, ecc. Per fortuna lo studio era la sua passione, ed era anche un grande lavoratore. Ma prima del lavoro, prima ancora della famiglia, per lui veniva Dio e quello che Dio voleva da noi. Si divideva tra l’ospedale e il movimento. Si è poi dedicato completamente al movimento, facendo anche diversi viaggi per il mondo in visita alle varie comunità. Intanto erano nati anche Maria Amata e Chiaretto. Ogni mattina rinnovavamo l’impegno a tener vivo l’amore reciproco. E se ci accorgevamo di aver mancato, subito ce lo dicevamo o ci telefonavamo, per aiutarci a ricominciare.
Una sera Cosimo è rincasato parecchio stanco: «Non ceno questa sera – mi ha detto –, vado subito a letto». Mi sono un po’ meravigliata perché di solito si fermava a scambiare qualche parola, anche se affaticato. Poco dopo i ragazzi mi hanno chiamato: «Vieni a vedere papà, sta tanto male!». Non si è più ripreso. Aveva avuto un aneurisma dell’aorta e in breve è spirato.
Il vuoto provato non so esprimerlo. Era come se se ne andasse anche la mia persona, mi mancava l’amore che avevamo costruito, Gesù fra noi. Capivo che Dio me l’aveva chiesto, dicevo anche: «Sì, io te lo offro», ma interiormente ero bloccata.
Dopo il suo funerale, sentendo il bisogno di stare da sola, sono andata in una chiesetta non frequentata da gente che conoscevo, e lì, durante la messa, mentre il sacerdote sollevava l’Ostia, m’è parso che Cosimo mi venisse incontro, che mi volesse rassicurare, dicendo: «Sono qui». Ancora una volta, ho capito come l’Eucaristia ci faceva una cosa sola.
Cosimo era in Dio, perciò tutti i giorni, ricevendo Gesù Eucaristia, io potevo avere questo colloquio con lui. E questa unità in Dio continua dovunque sono, non è qualcosa che appartiene al passato.
1) Cosimo Calò. La misura dell’amore: senza misura, Città Nuova Ed.