Avete avuto coraggio

Papa Francesco ringrazia il popolo ecuadoriano per la sua storia e la sua ricchezza spirituale e invita tutti a prendersi cura l’uno dell’altro, dell’ambiente, del Paese
papa Ecuador

«In questi due giorni in cui sono stato in contatto con voi, ho notato che c’era qualcosa di strano (scusatemi!) – sorriso abbozzato, risa contenute dei presenti -, qualcosa di strano nel popolo ecuadoriano. In tutti i posti dove sono stato, l’accoglienza è stata allegra, gioiosa, cordiale, religiosa, colma di pietà, da tutte le parti».

L'ha confidato “Francisco” ai sacerdoti, religiose, religiosi e seminaristi che ha incontrato prima della sua partenza dal Paese. «Che cos'ha questo popolo di diverso?», ha chiesto varie volte nella preghiera.

«Penso che ve lo devo dire come un messaggio di Gesù. Tutta questa ricchezza spirituale e di pietà che avete, viene dall'aver avuto il coraggio, – perché erano momenti molto difficili –  di consacrare la nazione al cuore di Cristo».

Questo il Santo Padre ha colto dopo incontri più o meno numerosi ma sempre personali con bambini, vescovi, anziani, religiose, studenti, malati, professori, impresari, autorità. Meticci, bianchi, neri, membri dei popoli nativi. Per le strade, nei palazzi, nelle piazze, nelle chiese, nei parchi.

Il cuore di Cristo. Francesco si riferiva alla solenne consacrazione dell'Ecuador come “Repubblica del Sacro Cuore”, nel 1873, in un’epoca di cospirazioni e lotte fratricide, da parte del presidente Gabriel García Moreno, assassinato due anni dopo e morto presso l’altare della Dolorosa, perdonando i suoi sicari.

Il papa ha ricordato gesta eroiche anche nella messa campale di Quito, davanti a un milione e mezzo di fedeli riuniti nel parco Bicentenario della capitale dell'Ecuador che ricorda il “Primo Grido dell'Indipendenza Ispanoamericana”, ovvero l'inizio del processo emancipatorio dell'America Latina, avvenuto proprio a San Francisco de Quito nel 1809.

Proprio a quel grido, nato dalla «coscienza della mancanza di libertà, dalla consapevolezza di essere oppressi e saccheggiati, soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno» si è riferito “Francisco” nell’omelia.

«A quel grido (…) non mancò convinzione né forza; ma la storia ci insegna che fu contundente solo quando lasciò da parte i personalismi», ha sottolineato. Con un accostamento sorprendente, ha associato quel clamore al «sussurro di Gesù nell'ultima cena: 'Padre, che siano uno, affinché il mondo creda'. Immagino questo sussurro come un grido e vorrei che oggi queste due grida concordassero nel segno della bella sfida dell’evangelizzazione».

«Noi qui riuniti, tutti insieme alla mensa con Gesù, diventiamo un grido, un clamore nato dalla convinzione che la sua presenza ci spinge verso l’unità», ha proseguito il pontefice.

Gesù ci invia a questo mondo «che ci sfida con i suoi egoismi e la nostra risposta riecheggia il grido di Gesù e accetta la grazia e il compito dell’unità». Di qui «l’anelito all’unità» che «suppone la dolce e confortante gioia di evangelizzare», ci fa più sensibili alle necessità altrui e ci spinge a «lottare per l’inclusione a tutti i livelli, evitando egoismi, promuovendo la comunicazione e il dialogo, incentivando la collaborazione. Bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze… Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è artigianale».

«Che bello sarebbe  – ha aggiunto – che tutti potessero ammirare come noi ci prendiamo cura gli uni degli altri, come ci diamo mutuamente conforto e come ci accompagniamo! Il dono di sé è quello che stabilisce la relazione interpersonale che non si genera dando 'cose', ma dando sé stessi».

 

E Francesco si è donato. Tanto. Come quando è andato a trovare gli anziani dell’ospizio delle Missionarie della Carità di Madre Teresa. Li ha benedetti uno a uno, li ha ascoltati, anche solo per un istante. Un gesto reso ancor più forte dalla mancanza di un “discorso ufficiale”, che sarebbe stato fuori luogo.

Forse per questo un suo semplice sguardo o un saluto nella moltitudine hanno colpito forte. La commozione ha accompagnato, insieme alla gioia, la tappa ecuadoriana di questo primo viaggio del primo papa sudamericano a tre Paesi piccoli, dimenticati, ma ricchi di umanità e risorse naturali, che parlano la sua lingua materna.

Ma c'è stato poco o nulla di fanatismo o di messianismo, e neppure di religiosità popolare da amuleti magici nell'atteggiamento degli ecuadoriani. Francesco ne sarebbe stato quanto meno infastidito.

«Il papa è venuto quando più ne avevamo bisogno», hanno detto in tanti, e l’hanno scritto nei cartelli per strada. Negli ultimi mesi la frattura tra sostenitori del presidente Correa e l’opposizione è parsa sempre più profonda, tra accuse di destabilizzazione de una parte e di dittatura dall’altra, a colpi di cortei e controcortei che cominciavano a preoccupare davvero. E non pochi temevano la strumentalizzazione politica dei gesti e delle parole del papa.

Ma Francesco si è mosso con sapienza, astuzia, buon senso ed amore. Ha invitato il Paese ad essere «leader in America Latina» di sviluppo sostenibile e rispetto della natura, ha ringraziato il presidente della «coincidenza» col suo pensiero, ha denunciato i «personalismi», ha avvertito dei rischi di farsi prendere dalla «cultura dello scarto». A tutti, secondo Francesco, Dio ripete «con forza» la domanda che rivolse a Caino: «Dov'è tuo fratello?. E mi chiedo se la nostra risposta continuerà ad essere: 'Sono forse il guardiano di mio fratello?'».

Agli studenti ha chiesto di apprezzare il «privilegio» dello studio e di «uscire dalle aule».

Ai professori ha chiesto: «Aiutate i vostri alunni a sviluppare uno spirito critico, libero, capace di prendersi cura del mondo di oggi?».

Agli uni e agli altri ha sottolineato che «l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme. Ma così come si degradano, possiamo anche dire che si sostengono e si possono trasfigurare, se ci prediamo cura di loro».

Con 700 laici costruttori della società civile riuniti nella chiesa di San Francesco, provenienti da ogni angolo del Paese, il papa ha voluto condividere una riflessione che modella la società sulla famiglia.

«I litigi in famiglia – ha detto – sono poi riconciliazioni. Le gioie e le pene di ognuno sono assunte da tutti». «Se potessimo riuscire a guardare l’oppositore politico o il vicino di casa con gli stessi occhi coi quali guardiamo i nostri figli o familiari, che bello sarebbe», ha esclamato il papa, aggiungendo: «Amiamo la società con le opere più che con le parole».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons