Avere una musica in testa: variazioni su un tema

A chi non è mai capitato di svegliarsi al mattino con una canzoncina nella testa? Il fenomeno dell'“ear worm” e i geni della musica
Foto Pexels

È una sensazione per niente sgradevole, anzi piacevole, comune a molti; dicono che addirittura il 98% delle persone abbia esperienza di questo singolare fenomeno. I blog sono pieni di post ispirati al fenomeno del motivetto che ti suona in mente per ore.

C’è una vecchia canzoncina del 1967, Zum Zum Zum, sigla di Canzonissima, uno show televisivo del sabato sera. Dicevano i versi: “Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa; sentire una specie d’orchestra che fa zum zum, zum zum…”.

Pare che le riviste di psicologia cognitiva abbiano pubblicato articoli ed articoli su tale argomento: lo chiamano ear worm, “il tarlo nell’orecchio”. Nel 1987 questi fenomeni furono definiti “parassiti” musicali del cervello e successivamente la psicologia cognitiva li rinominò con la sigla INMI (Involuntary musical imagery).

Ma non è un fenomeno ossessivo, un vero tarlo; è un vitale fenomeno, una “magnifica ossessione” che fa compagnia: può essere Bach, o una canzoncina sciocca, può essere un gingle pubblicitario o un’aria dalla quinta di Mahler.

Pensiamo, adesso, al grande repertorio della musica classica. Le “variazioni su un tema”, sono un genere che ha regalato alla musica immensi capolavori. Nessuno ha mai pensato che in molti casi le “variazioni sul tema” possano esser nate proprio da una musichetta ricorrente, da un ear worm nella mente di chi le ha scritte?

Parleremo solo di menti geniali che ci hanno lasciato immensi capolavori. Felix Mendelssohn-Bartholdy scriveva all’amico violinista Ferdinand David nel 1838: «Vorrei proprio scrivervi un concerto per violino per il prossimo inverno, ne ho in testa uno in mi bemolle, il cui inizio non mi lascia un minuto di pace». Così scriveva dichiarando la presenza, nella sua mente, di un provvidenziale ear worm. E nel 1844 Mendelssohn completava il suo famosissimo Concerto in mi minore per violino e orchestra, Op. 64, suo capolavoro assoluto nel genere dei concerti per violino.

Pensate al tema “perforante” dell’arietta popolare francese Ah, vous dirai-je, Maman; è un’aria popolare, non è un caso che sia una musica da carillon e da canzoncine per bambini cantate in tutte le lingue; è un’arietta orecchiabilissima, un piccolo tormentone. Come si può non immaginare che le variazioni K.265 di Mozart su quel tema possano esser nate da un tipico “ear worm”, un tarlo nell’orecchio di quell’ineffabile cervello salisburghese?

I temi di Nicolò Paganini sono orecchiabilissimi; le variazioni di Brahms ed anche quelle di Liszt sui temi di Paganini non saranno nate da ariette ripetitive dell’«infernale violinista» ricorrenti nella mente di quei geni?

Insomma ci diverte pensare che molte variazioni su un tema e brani ispirati comunque ad un tema altrui, non siano nate ragionando a tavolino, dallo studio attento di una partitura ma siano state concepite sulla base d’uno di quei fecondi motivetti che ti si piantano in testa e ti fanno compagnia per ore. Consapevoli della possibile arbitrarietà di quest’idea ci vengono in mente anche le variazioni “Goldberg” di Bach, le “Variazioni su un valzer di Diabelli” di Beethoven, ma anche quelle meno famose di Schubert (D 718).

Il musicista Franz Schubert. Di Wilhelm August Rieder, pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=112306578

Su Schubert la storia ci dice qualcosa di più sicuro: la “melodia ungherese” D817 scritta a Zselis, dimora estiva del conte Esterhazy ove nell’estate 1824 tornava come insegnante delle due figlie del conte, ormai adolescenti.

A casa Esteràzy Schubert condivideva l’alloggio con l’amico barone Schönstein che racconta: «Schubert annotò una canzone ungherese che sentì cantare nella cucina del conte da una giovane domestica; stava rientrando con me a casa dopo una passeggiata e la sentì passando. Ci fermammo ad ascoltare con attenzione. Schubert ne provò un piacere manifesto, tanto che dentro di sé rimuginò per lungo tempo il canto sino a quando l’inverno seguente riapparve come un tema dell’op. 54».

In realtà Schubert trascrisse quell’aria forse il giorno stesso, il 2 settembre 1824; cent’anni dopo se ne ritrovò il manoscritto oggi catalogato come Melodia ungherese D 817. Quell’arietta resta un piccolo gioiello che Schubert non archiviò ma mantenne in cuore e, tornato a Vienna, qualche mese dopo, in autunno, lo riprese nel terzo movimento del Divertissement à la Hongroise per pianoforte a quattro mani, Op. 54 D 818.

E qui la nota romantica. Tutte le opere per pianoforte a quattro mani scritte in quel periodo a Zelis erano dedicate alla giovane Karoline, figlia del conte Esterhazy della quale il ventisettenne Schubert, per testimonianza di molti biografi, era teneramente innamorato. Doveva essere proprio lei quella «certa stella incantevole» che illuminava la vita del castello, talvolta noiosa, della quale Schubert parlava al fratello Ferdinand in una lettera da Zselis.

Quel brano resta un capolavoro di poesia sonora, di musica sognante, di romanticismo vibrante e sublime. È certo dunque che, oltre all’allegretto del divertissement quell’ultimo tempo della fantasia, quel commiato, fosse per Schubert l’ultimo, tenero ricordo della vacanza di Zseliz e della giovane ed amata contessina Karoline. E forse la passione non si esaurì se dopo quattro anni, scrivendo la fantasia op. 103 D940 capolavoro assoluto della letteratura per pianoforte a quattro mani, Schubert pensò di dedicarla ancora all’amata contessina Karoline.

Erano gli ultimi mesi del 1828, e il 19 novembre Schubert lasciava anzitempo questa vita all’età di soli 31 anni.

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