Avanti o indietro?
Dopo i respingimenti dei barconi provenienti dalla Libia, sinfiamma il dibattito. Nel ragusano lesperienza positiva di un centro per i rifugiati.
«Non racconterò ai miei figli quello che ho fatto, me ne vergogno». Così avrebbe confidato uno dei militari che agli inizi di maggio ha dovuto eseguire l’ordine di «rimpatriare in Libia una nave di clandestini». Rimpatrio di clandestini, appunto, per alcuni; respingimento di poveri disperati per altri. Sembra si giochi tutta qui, in questi due termini, la partita dell’accoglienza o della chiusura verso le frotte di immigrati in cerca di un futuro migliore.
I fatti sono noti: il 6 maggio un barcone con a bordo più di 200 persone (con 40 donne, di cui tre incinte, e alcuni bambini) provenienti dalle coste africane e diretto a Lampedusa viene soccorso nel Canale di Sicilia. Solite scene di gente provata dalle fatiche del viaggio: tanto sole, niente acqua né cibo; solito trasbordo sulle motovedette della nostra Marina militare; solita speranza. Quello che è insolito, invece, è il tragitto: non verso l’isola siciliana, bensì verso il punto di partenza, la Libia, dove ad aspettare queste persone c’erano i militari di Tripoli che le hanno accompagnate nei locali “centri d’accoglienza”. Le virgolette in questo caso sono d’obbligo perché, come sostenuto da Laura Boldrini, portavoce dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati), in tali centri «tutto è discrezionale, le persone non hanno certezza del diritto né di quanto resteranno».
La procedura si ripete pochi giorni dopo, rendendo evidente che quanto successo il 6 maggio non sarebbe rimasto un episodio isolato, ma avrebbe fatto parte di quella linea dura nei confronti dell’immigrazione che «continuerà finché gli sbarchi non cesseranno», come ha dichiarato il nostro ministro dell’Interno Maroni, anche se, è bene ricordarlo, quelli chiamati clandestini arrivano solo nella misura del 15 per cento via mare. Degli altri nessuno si occupa.
Legittima decisione di un Paese o violazione del diritto internazionale? Da qualche richiamo arrivato ai nostri governanti da parte dell’Onu, così come dalla Commissione europea, sembrerebbe che i rimpatri forzati non rientrino tra le convenzioni sottoscritte dai vari Stati membri. Lo stesso commissario europeo alla Giustizia, Barrot, ha ribadito di recente alcune priorità a proposito degli immigrati: salvare vite umane, fare opera di prevenzione impedendo che migliaia di persone finiscano in balia dei trafficanti, garantire il diritto inviolabile alla richiesta di asilo. Diritto che, tra il resto, fa parte di un Patto europeo per l’immigrazione e l’asilo, appunto, approvato lo scorso ottobre dal Consiglio d’Europa, volto a garantire assistenza e protezione in applicazione della Convenzione di Ginevra in vigore già dal 1951.
E sappiamo bene quanto dalla Libia arrivino sulle nostre coste somali ed eritrei, ad esempio, tra i maggiori richiedenti asilo.
Quale la risposta, allora? Si invoca da più parti un coordinamento europeo che manca o non è sufficiente, perché è oggettivamente difficile far fronte da soli o con politiche nazionali talora divergenti ad un flusso così imponente di migranti con le più varie caratteristiche. Un argomento, questo, all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri degli Interni europei del 5 giugno, dal quale tutti aspettiamo indicazioni importanti.
Il centro di Comiso
«L’impatto col mondo dell’immigrazione è duro. Chi sta fuori non immagina quali possono essere i problemi. Da quando lavoro qui, ogni volta che vedo al telegiornale le immagini dei barconi che arrivano, penso subito alle tante tragedie che queste persone hanno vissuto, al carico di sofferenza nel lasciare mogli, figli, nell’andare incontro all’ignoto». A fare questa osservazione è Annarita Iacono, un’assistente sociale che lavora in un centro per persone richiedenti asilo situato a Comiso, nel ragusano. È qui che incontro Bashar di Baghdad. Suo padre è morto dilaniato da una bomba, la madre e il fratello sono rimasti in Iraq e lui, che è campione arabo di lancio del disco, ha deciso di lasciare quella terra dove «la vita è molto difficile e non si capisce se adesso sia davvero migliorata rispetto a prima». Mohammed, invece, viene dall’Afghanistan. Non sa dire se la sua città sia a Nord o a Sud del Paese, non ha mai conosciuto i genitori, non vuole più tornare lì dove non ha nessuno. In Italia è arrivato dalla Grecia nascosto dentro un camion e per due mesi ha vissuto ad Ancona «finché la polizia non mi ha trovato. Da due mesi ho fatto richiesta di asilo, ma sono ancora senza documenti».
Artur viene dall’Armenia e quando lo incontro è proprio il giorno del suo compleanno, un’occasione per mettere in moto la sua grande arte culinaria con piatti prelibati per tutti presentati in maniera elegantissima. Non gli è stato concesso lo status di rifugiato in quanto l’Armenia non viene considerata fra i Paesi a rischio, ma ha ottenuto la protezione umanitaria per la sua condizione di vulnerabilità fisica: qui è in attesa di un trapianto.
Altri ospiti non ce la fanno neanche a raccontare qualcosa di sé, è troppo forte la tragedia che li accompagna. Tutti però dicono di aver trovato piena disponibilità, calore, amicizia… E forse il nome stesso del progetto, “Farsi prossimo”, non è casuale.
La struttura è a dimensione familiare, può ospitare fino a 25 persone, ed è di recente fondazione. Nasce infatti nel 2004 proprio per rispondere ai ripetuti sbarchi di immigrati a Portopalo e Lampedusa che hanno spinto la Caritas di Ragusa a farsi carico di una situazione spesso spacciata come un’emergenza transitoria facilmente risolvibile. È stato così che, d’intesa con il comune della provincia siciliana e con quello di Comiso, si è sviluppata l’idea di realizzare un progetto che rientra nella rete nazionale dello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e che da subito coinvolge vari soggetti: dal Centro territoriale permanente per l’alfabetizzazione ad alcune associazioni sportive che inseriscono gli ospiti del progetto nelle proprie iniziative, a un consorzio per l’organizzazione dei tirocini formativi. Fondamentale anche la disponibilità delle comunità di varie religioni e di diverse confessioni cristiane.
«Si è capito sin dall’inizio che era importante coinvolgere la città», racconta Salvatore Brullo, direttore del centro. Comiso, una cittadina di 30 mila abitanti a economia prevalentemente agricola, registrava già una forte presenza immigrata e «l’equilibrio delicatamente costruito con la popolazione residente avrebbe potuto subire qualche incrinatura in seguito alla presenza di questo centro e di altri vicini. Perché allora, ci siamo chiesti, non fare leva sull’innata cultura dell’accoglienza dei siciliani e svolgere un’opera di sensibilizzazione?», continua Brullo. Detto, fatto. La città reagisce bene offrendo collaborazione a più livelli.
Integrazione
Ma il processo non è completo se dall’accoglienza non si passa all’integrazione. Ecco l’importanza di trovare percorsi lavorativi e soluzioni abitative dignitose e sparse nella città, per evitare la formazione di quartieri “ghetto”. Il risultato è soddisfacente: la percentuale di integrazione reale si attesta sul 60 per cento delle nuove presenze nel territorio.
Tutto facile? No. Come si può immaginare, le difficoltà su vari fronti non sono mancate. A partire dalle numerose pratiche necessarie per avviare la richiesta dello status di rifugiato. Daniela Lucifora nel centro si occupa proprio della parte che riguarda la documentazione e quindi trascorre le sue giornate tra un ufficio e l’altro. «L’iter burocratico è davvero complicato – mi dice –, anche perché ci scontriamo con enti esterni che non sempre ci facilitano le cose. Ma c’è grande soddisfazione quando arrivano i documenti: è il momento in cui i nostri ospiti si sentono riconosciuti».
Già, perché qui convivono persone provenienti da Etiopia, Costa d’Avorio, Kurdistan, Somalia, Ghana, Iraq, Afghanistan… che imparano a dormire nella stessa stanza, mangiare alla stessa mensa, anche se i rispettivi Paesi di origine o le etnie di appartenenza magari possono trovarsi in guerra tra di loro.
«Un lavoro del genere non è una semplice professione. Potrebbe essere gratificante, però, se non hai una motivazione forte, diventa alienante, anche perché il carico psicologico ed emotivo non è indifferente – mi confida Salvatore Brullo –. Se riesci a farlo con professionalità, ma guardando al prossimo che hai davanti, allora arrivi a fare tutto bene, a farti carico delle storie di ognuno, perché non sono mai problemi collettivi, per ciascuno ci vuole una risposta diversa. La cosa però di cui tutti hanno bisogno è di essere ascoltati, di trovare qualcuno che li tratti come persone, con la dignità di cui sono portatori».
Già, la dignità di persona. Meglio tenerne conto sempre.